Massimo Becco, quilianese “doc” classe 1958, è ancora oggi ricordato come uno dei migliori centravanti espressi dal calcio semiprofessionistico ligure tra gli anni ’70 e ’80. Cresciuto nelle file del Vado, esploso nella Carcarese e con all’attivo un breve passaggio alla Cairese, non si è sottratto alla tipica “saudade” che una terra visceralmente legata al calcio sa suscitare ed è tornato nella sua Quiliano per scrivere, insieme ai compagni e agli amici di una generazione irripetibile (vedremo perché), pagine indimenticabili di uno straordinario capitolo di storia calcistica e non solo.
BORIS CARTA
«Si può dire che la mia passione per il calcio sia nata insieme a me, perché ho ricordi di mie avventure con la sfera già nei miei primi anni di età. Era l’inizio degli anni ’60, un periodo in cui se non giocavi a calcio non saresti riuscito a inserirti nel contesto dei tuoi amici perché quasi tutti ci giocavano, chi male chi bene: il più scarso veniva schierato in porta, qualcun altro veniva messo in un angolo, ma tutti partecipavano alla partita.»
Quali sono state le prime soddisfazioni che questa passione ti ha regalato?
«Ricordo ancora la prima Coppa Pacella, trofeo istituito in memoria di un giovane calciatore zinolese prematuramente scomparso, che ho vinto nel 1968 – dunque, a dieci anni – e della quale conservo ancora la medaglia. Da lì in avanti la mia partecipazione ai vari tornei giovanili è stata assidua e continuativa finché, per scelta mia, non sono riuscito ad approdare al Quiliano, che per me ha rappresentato un punto d’arrivo, se non dal punto di vista dei risultati personali, sicuramente per quanto riguarda il modo di essere. A quei tempi giocare nel Quiliano significava essere parte di un ambiente sociale, si viveva praticamente in simbiosi: chi sapeva giocare giocava, chi non sapeva giocare faceva il dirigente o l’accompagnatore. Intorno al Quiliano Calcio, e prima ancora intorno al Club Sportivi Quilianesi, c’era un movimento davvero di primo livello: le persone anziane riuscivano a convivere con i giovanissimi, cosa che oggi non avviene più.»
Ma qual era davvero il segreto di tutto ciò?
«Il saper tramandare gli usi, i costumi, le tradizioni e i modi di essere dalle generazioni passate a quelle successive. Era un mondo fantastico, al punto che se oggi qualcuno va sul mio profilo Facebook scoprirà che io mi sono definito “laureato al Bar Sport”, perché effettivamente il Bar Sport di Quiliano è stato una scuola di vita per la nostra generazione: lì abbiamo imparato a confrontarci, a vivere qualche volta di compromesso, a stare in un ambiente sociale e a lavorare per determinati obbiettivi. Oltretutto eravamo molto inseriti dal punto di vista dell’organizzazione, nel Club Sportivi Quilianesi prima e nel Quiliano poi. Io ho ricordi di persone incredibili, aneddoti meravigliosi: dalle gare a scopetta e a calcio balilla alle sfide di ping pong fino alle partite di calcio, arrivate successivamente. Anzi, si può dire che la squadra di calcio sia stata il punto d’arrivo di tutta una vita che noi abbiamo trascorso all’interno del Bar Sport.»
Una scuola di vita non solo per i quilianesi, ma anche per coloro che hanno «passato il ponte» per venire a giocare qui…
«Era un’atmosfera che si percepiva e si trasmetteva, l’ambiente che si creava diventava virale anche per tutti coloro che ne restavano coinvolti. Quanta gente arrivata da Savona per giocare nel Quiliano rimaneva poi imbrigliata nella vita del Bar Sport un po’ a tutti i livelli. In un certo senso, il comune denominatore era la competizione: io e tutti quelli della mia generazione non avremmo potuto giocare nemmeno a scopa dell’asso senza pensare di vincere, era una sfida eterna e continua. E noi siamo stati campioni in questo senso, non mollavamo neanche a morire: ci sfidavamo addirittura in bicicletta per vedere chi sarebbe riuscito ad arrivare fino in cima a Montagna con una bici quasi senza pedali. E talvolta si sottoponevano a ciò i soggetti più inimmaginabili, persone anche di cinquant’anni accettavano la sfida per dimostrare ancora le loro capacità fisiche. Insomma, era un mondo molto più semplice e genuino; più rurale, se vogliamo, ma indubbiamente molto interessante.»
E che non si rimpiange mai abbastanza…
«Si rimpiange probabilmente anche perché il tempo passa e chi ha vissuto certi periodi è sempre portato a dire che una volta si stesse meglio. Io non se questo sia vero, ma per quanto mi riguarda sono stati periodi interessantissimi: magari si rimaneva seduti anche fino alle tre o alle quattro di notte a discutere del sesso degli angeli, però era una discussione. E lì ognuno di noi ha imparato cosa significhi stare in gruppo e rispettare il pensiero degli altri.»
E dopo un quadro così limpido come quello poc’anzi offerto, viene spontaneo chiedersi se quello spirito di competizione nascesse al Bar Sport per poi tradursi sul terreno di gioco o viceversa…
«Credo che le due cose si equivalgano, c’erano un’andata e un ritorno da ambo le parti. Chi veniva a Quiliano si fidanzava con una ragazza quilianese, frequentava il Bar Sport e poi, magari, capitava che si lasciasse con la fidanzata: era tutto un giro di vita vissuta. È struggente la nostalgia con cui ne parlo, vedendo il Bar Sport abbandonato senza che nessuno abbia avuto più l’idea di rilevarlo per farlo ripartire. Evidentemente quella attuale è una generazione che non sa stare insieme, che ha sposato l’individuo in tutto e per tutto non capendo che l’individuo da solo non risolve nessun problema. Se uno è sempre da solo ed è abituato a risolvere i propri problemi da solo non può avere la capacità di creare un’organizzazione e, di conseguenza, non va da nessuna parte. Ed è questo il limite di una generazione che invece, per altri aspetti, è avvantaggiatissima rispetto alla nostra, perché ha tutto quello che vuole e non soffre di nulla.»
Ma il benessere materiale non arricchisce interiormente quando vengono meno valori autentici come il rispetto e l’amicizia…
«Noi ci divertivamo anche da stupidi, per esempio facendoci dei gavettoni. Però questo era un collante che faceva sì che tutti accettassero il gavettone, e chi non lo accettava si faceva fuori da solo. In tal modo, alla fine, anche i meno propensi agli scherzi dicevano: “Ma sì dai, siamo tra amici. Stavolta hanno bagnato me, la prossima volta bagno io loro”. E anche questo è stato un passaggio utilissimo. Gli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 sono stati duri, contrassegnati dall’ampia diffusione dell’eroina tra i giovani. Anch’io e gli altri della mia compagnia abbiamo perso tanti amici a causa della droga, e non a caso si è trattato di coloro che non erano riusciti a inserirsi nel meccanismo del nostro gruppo che era, in fondo, un meccanismo di protezione. Oggi, invece, una volta che vieni messo da parte sei abbandonato, nel calcio come negli altri aspetti della vita.»
Insomma, si può dire che quilianesi si nasce e, talvolta, si diventa…
«Io affermo sempre che il mio codice fiscale è H126, ovvero il codice catastale di Quiliano. Sono un “figgio de Cüggén”, qui sono nato e qui ho il desiderio di finire la mia vita. Non me ne vogliano gli amici delle zone limitrofe, ma il mio motto è “Né Valleggia né Cadibona, ma né Vado né Savona”, perché io sono figlio delle piazze di Quiliano. E se, una volta smesso di giocare, ho tralasciato l’interesse squisitamente calcistico locale, continuo a dedicarmi a tutto ciò che sprigiona quilianesità in quanto sono un amante di questo territorio e dei suoi prodotti. E per me la “Q” è fondamentale, un qualcosa che deve rimanere. Ho creato un gruppo escursionistico che si chiama “Tracce”, ma l’ho scritto con due “q” al posto delle due “c” in quanto intendo identificare le tracce di questo passaggio sul territorio quilianese; tutti lo leggono “tracche”, ma per me significa… le tracce del Quilianese. Il calcio è stato estremamente importante nella mia avventura sportiva e lo è stato in particolare a Quiliano perché mi ha fatto apprezzare la capacità di scegliere determinati valori. Nella seconda metà degli anni ’80, ancora abbastanza giovane e con alle spalle una soddisfacente carriera calcistica a Vado e in Valbormida (in particolare con la Carcarese ma anche con la Cairese, con la quale ho sfiorato la promozione in Serie C2 sfumata nello spareggio di Alessandria con la Pro Vercelli), non ci ho pensato un momento quando mi si è presentata l’opportunità di tornare a Quiliano per far parte di un gruppo in cui erano tanti miei amici. E mentre alla Cairese percepivo uno stipendio più alto rispetto a quello di un operaio e a quanto guadagnava mio papà, a Quiliano sono venuto a giocare gratuitamente. A parte il fatto che ero già entrato nel mondo del lavoro, ero gratificato e motivato dall’idea di poter giocare con un amico fraterno quale Franco Davi e con gente come Flavio Camici, i gemelli Brondo e tutti quei ragazzi che non avevano avuto la nostra esperienza ad alti livelli ma erano portatori di voglia e di ambizioni come mio fratello Marco, Claudio Bellisio, Giorgio Rapalino, Flavio Bertola: nomi che, dal loro punto di vista, hanno segnato un’epoca per i quilianesi. Insomma, un “laboratorio” veramente interessante in cui sono rimasto anche in veste di allenatore e dirigente una volta appese le scarpe al chiodo.»
E immagino che lo scrigno dei ricordi sia strapieno…
«Abbiamo portato in paese gente importante solo per il piacere che stesse con noi. Ricordo un ottimo giocatore come Procopio, reduce da un infortunio e venuto a giocare per un anno a Quiliano al fine di ritrovare la condizione fisica. Tuttavia, il mio ricordo più angosciante è legato ad Antonio Marcolini, con il quale eravamo legati, in particolare io e Davi, da un’amicizia fraterna avendo anche giocato insieme: era venuto per fare l’allenatore e da noi aveva ritrovato quei valori tipici della “quilianesità” che probabilmente non aveva mai avuto nelle sue avventure a Bari, Savona e nelle altre città che hanno visto i suoi passaggi da professionista. Era un mix di divertimento e di capacità di stare insieme, il tutto condito da un seguito di pubblico interessantissimo e dalla presenza di persone capaci di coagulare intorno a loro un interesse di tale portata. Penso che anche il dottor Fulvio Moirano, che pure è riuscito ad arrivare dove è arrivato, abbia maturato la sua prima esperienza da manager al Bar Sport, quando compravamo gli alcolici da dare al gestore, piuttosto che non quando faceva il presidente della squadra di calcio costituendo, insieme ad altri appassionati, il nuovo Club Sportivi Quilianesi, con maglie rossoblu e testa di rapace come simbolo. Per non parlare di uomini come Mauro “Gerry” Giusto, Michele Salinas, Giovanni Visca ed Enrico Picasso, per citarne solo alcuni, che offrivano la propria opera rimettendoci più che guadagnandoci ma erano ripagati profumatamente, così come tutti quanti noi, dal piacere di stare insieme. E poi non ci annoiavamo mai: ricordo che nel 1992, l’anno dell’alluvione di Quiliano, il campo era completamente sotterrato dal fango e la squadra non si sarebbe dovuta fare. Ebbene, dopo tre giorni ci siamo ritrovati a tirare fuori le gomme da sotto il fango: c’era questo collante che ci faceva andare avanti. Davvero una bella galleria di personaggi che fa parte di questo territorio e dalla sua storia.»
Il cui fascino resiste all’incalzare del tempo e dei cambiamenti…
«Il calcio, così come il mondo, è profondamente cambiato. Oggi è tempo di Fantacalcio, di scommesse, di calcio virtuale in cui ognuno prepara la sua personale schedina. Noi avevamo solamente Tutto il calcio minuto per minuto e la classica schedina del Totocalcio, ma conoscevamo i giocatori sicuramente più degli altri grazie anche alle mitiche figurine Panini. Oggi si sentono genitori dire: “Porto mio figlio a calcio” oppure: “Porto mio figlio a nuoto”; i nostri dicevano semplicemente: “Mio figlio va al campo”. E così era: io e i miei amici andavamo direttamente al campo e, una volta lì, giocavamo perché non c’erano alternative, il calcio era un mezzo di vita ed era parte della vita. Io penso che tutti quelli della mia generazione siano passati dal campo sportivo, anche i più scarsi che neppure avrebbero potuto mettervi piede: magari facevano finta di fare il portiere e poi, naturalmente, venivano messi in un angolo, ma comunque entravano. Attualmente ci sono un’infinità di altri interessi: da un certo punto di vista è anche bello, ma non mi sembra che i risultati siano particolarmente importanti.»
Ecco, i genitori. Spesso, quando un ragazzo si accosta alla pratica di una disciplina sportiva, la famiglia tende a mettere in maggiore risalto l’opportunità di una carriera e il possibile tornaconto economico a discapito dell’aspetto ludico, che dovrebbe costituire il fondamento di ogni sport…
«Secondo le statistiche, un ragazzo ogni 35.000 riesce ad arrivare in Serie A e i restanti 34.999 sono destinati a non vedere realizzato il loro sogno. E questo è un problema, assieme al disconoscimento dell’autorità. I miei genitori venivano al campo, erano anche tifosi caldi, ma non si sarebbero mai permessi – anche perché allora non usava – di interferire e colloquiare con la dirigenza o l’allenatore, di dire: “Perché mio figlio gioca lì? Perché non gioca là? Deve giocare in tal modo”; non se ne parlava assolutamente perché c’era un riconoscimento dell’autorità, sia scolastica che calcistica così come della vita normale, che era garantito. Oggi tutto ciò e scavalcato e, di conseguenza, tu trovi al campo il padre che grida e convince il figlio a fare una cosa mentre l’allenatore ne dice un’altra; il risultato è che si crea una confusione assoluta e che i ragazzi abbandonano a 17-18 anni, perché sono stufi di tutto questo e non hanno più la capacità di potersi divertire. Per me che intendo il calcio come un divertimento, frequentare il mondo del calcio giocato è stato l’unico passaggio davvero divertente. In seguito ho fatto l’allenatore ma il divertimento è sicuramente andato scemando, per non parlare di quando ho fatto il dirigente. Il calcio è bello quando tu lo giochi, è entusiasmante quando tu colpisci e la palla va dentro. E la gioia del gol, non mi vergogno a dirlo, alcune volte può addirittura superare il piacere sessuale, perché quando tu infili il pallone in rete e risolvi un problema è tutta una rivalsa, un modo per dire di aver vinto la tua competizione. E questo vale sia per la finale di un campionato importante che per il torneo da 6 giocato tra amici.»
Figuriamoci per la «generazione della competizione»…
«Noi eravamo così anche nelle discipline sportive al di fuori del calcio: nella pallavolo, nel tennis, nel ping pong… Anche se non sapevamo giocare dovevamo vincere, eravamo disposti a scannarci per farlo; la remunerazione non era economica, ma per il nostro orgoglio. Per noi si trattava di un modo di stare insieme e trasmettere al contempo la quilianesità che avevamo nel nostro DNA. E devo dire che siamo rimasti molto affezionati a questo tipo di calore: con i vari Brondo, Davi, Camici ho un rapporto di amicizia che supera il fatto di poterci incontrare e vedere. Basta che uno alzi il telefono e noi siamo a disposizione l’uno dell’altro.»
Un’isola felice, insomma, quella che Quiliano continua a rappresentare sotto il profilo calcistico. Anche dopo la nascita, nel 2017, della nuova società Quiliano&Valleggia…
«Dopo il mio periodo, prima da calciatore e poi da allenatore e dirigente, ho seguito parzialmente anche dei Quiliano di tipo diverso, di portata più meramente economica e ambiziosa in cui, guarda caso, non c’erano giocatori del paese. Il Quiliano è arrivato a giocare contro il Vado, a disputare il derby con il Savona, ad approdare in Eccellenza… Molto bene, ma tutto ciò a scapito della quilianesità che è stata svilita; con il risultato che la squadra è precipitata e, a un certo punto, non è più esistita. E non poteva essere diversamente, perché quando si cerca di portare gente da fuori e non si ha uno strato molto forte in casa è inevitabile che la “cattedrale nel deserto” crolli in quanto chi ha investito lì va a investire da un’altra parte lasciandosi dietro le macerie. Il nuovo sodalizio e il suo tentativo di dare un senso molto sociale anche alla squadra di calcio rappresenta a mio giudizio un bel modo di ripartire. Le difficoltà attuali sono nettamente superiori a quelle che ci potevano essere una volta: fra i genitori, i mezzi, i campi, le spese e le leggi tutto gioca contro e non è facile sopravvivere. Dunque, un plauso a tutti coloro che portano avanti questo discorso impegnativo. Da parte mia, è poco importante che il Quiliano vinca il campionato o arrivi a metà classifica, anche se capisco che bisogna cercare di puntare verso le migliori posizioni. Per me ciò che conta è che il Quiliano continui a esistere e, pertanto, ringrazio coloro che si dannano l’anima nel compito quasi proibitivo di portarlo avanti.»
Per concludere: che cosa rappresenta ancora il calcio per Massimo Becco?
«Personalmente mi è successa una cosa molto strana. Da ragazzino vivevo con l’ansia di non poter andare a giocare perché poteva capitare – per fortuna è successo raramente – che io portassi a casa un brutto voto e l’unico modo in cui mia madre mi potesse punire era dicendomi: “Non vai a giocare a calcio!” sapendo che io davo al calcio un’importanza estrema. Pensavo che quest’idea mi sarebbe perdurata fino alla fine dei miei giorni e invece, un bel giorno, il pallone mi si è sgonfiato totalmente: ho cominciato a capire che sarei andato a frequentare le tribune dei campi per divertirmi con i miei amici anziché per guardare la partita. Così ho riflettuto e mi sono detto: “Forse puoi divertirti anche in altri posti, con i tuoi amici”.»
Come si può spiegare tutto questo?
«Credo sia da attribuire anche al fatto che io e i miei compagni abbiamo davvero dedicato tanto al calcio. Non avevamo domenica perché non si mangiava mai con gli altri, al sabato sera non si usciva spesso con gli amici; insomma, è stato un modo di vivere abbastanza sacrificato. Quando ho capito che potevo farne a meno mi sono liberato da quello che era il mio carceriere “dorato”, ma era sempre un carceriere e devo ammettere che, ultimamente, mi sono completamente affrancato dal mondo del calcio. Non sono uno di quelli che pensa che ieri si giocasse meglio e oggi si giochi meno bene; semplicemente, ritengo si sia conclusa una parentesi della mia vita. Ho altre passioni e questo mi aiuta a sfornare sempre nuove iniziative, andare a sedermi in una tribuna e rimpiangere il tempo che fu non fa parte del mio modo di essere. Tifo per la Juventus e, quindi, sono avvantaggiato dal fatto che si vince molto spesso. Ma sono un tifoso moderato e non accetto tutti quei criticoni che non sanno che, in realtà, sconfitta e vittoria sono le due facce della stessa medaglia: se non c’è l’una non c’è l’altra. Ben venga, dunque, il momento in cui si perde perché domani si potrà tornare a vincere. Per dire, io ho rappresentato uno dei periodi più interessanti della vita calcistica della Carcarese per poi accettare di buon grado di andare a giocare a Cairo: ci sta, fa parte del calcio a tutti i livelli. E la funzione del calcio deve essere quella di accomunare, non di dividere.»
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