«Aveva un sinistro che parlava». Così, a distanza di decenni, è ancora ricordato Flavio Camici, colonna del centrocampo del grande Quiliano anni ’80 nelle cui file è approdato al culmine di una carriera durante la quale si era messo in luce come uno degli elementi di più sicuro rendimento nel panorama del calcio dilettantistico ligure. Eppure lui sembra schermirsi di fronte a tale definizione…
BORIS CARTA
«Diciamo che avevo quel piede e cercavo di sfruttarlo al meglio, avevo un bel calcio. Per il resto penso che lavorassi più di quantità: tanta corsa, grande recupero sui contrasti e buona capacità di leggere tatticamente ciò che accadeva in campo. Probabilmente avevo anche qualità, ma non sono io a doverla riconoscere. Piuttosto preferisco ricordare che ho avuto la fortuna di giocare insieme a persone che tecnicamente erano davvero brave e questo mi ha aiutato».
Quale ruolo ritieni sia stato più congeniale alle tue attitudini?
«Forse da terzino di fascia, quello che ho svolto maggiormente. Tuttavia, quando ero alla Carcarese, per necessità ho disputato una stagione come libero. Un libero moderno, però, che amava costruire più che rompere. Con il passaggio al Vado Boys mi sono invece sistemato a centrocampo, posizione che ho poi mantenuto anche a Quiliano».
Ora, però, un passo indietro: come e quando sono nati la tua passione per il calcio e il tuo desiderio di praticarlo?
«Sono nati quando il Vado era andato a giocare a Quiliano nel mitico campo delle Traversine e mio zio Sergio Camici, che giocava come portiere nel Vado, mi aveva portato a fare qualche allenamento. Abitando di fronte al campo, era abbastanza normale che andassi a giocare lì. Intorno ai 10-11 anni sono entrato nei Pulcini – o N.A.G.C., come si diceva allora – e da li è partita la mia carriera. Oltre a mio zio, uno dei miei primi maestri è stato sicuramente Romualdo Chittolina, figlio del mitico Ferruccio. Poi Macciò e i primi allenatori che ho avuto come Ansaldo e Giancarlo Tonoli, che mi ha diretto anche a Carcare».
Quali sono state le prime soddisfazioni che il calcio ti ha regalato?
«Le primissime sono arrivate con gli Esordienti del Vado, una squadra formata da diversi ragazzi che in seguito avrebbero giocato a buoni livelli. Per due-tre anni, in provincia a livello giovanile, abbiamo vinto veramente tanto, compresi i mitici trofei “Levratto”, tornei quadrangolari organizzati dal Vado. Di questi ultimi, uno l’ho vinto… da seduto poiché non ho mai giocato: come dire che anch’io ho fatto le mie belle panchine. Tuttavia, l’occasione di esordire in prima squadra non è tardata ad arrivare: a neppure 17 anni ho debuttato in Promozione Ligure, allora a girone unico, arrivando a conquistare un posto da titolare dopo un paio di stagioni. Quindi, nell’estate del 1978, sono passato alla Carcarese dove ho trovato Massimo Becco e Franco Davi, quilianesi e miei grandi amici che erano lì già dall’anno prima, oltre al già ricordato “mister” Tonoli».
L’ascesa del calcio valbormidese che contraddistinse la fine degli anni ’70 si identificò soprattutto in due nomi: Arnaldo Pastorino e Cesare Brin, presidenti rispettivamente di Carcarese e Cairese. E in quel periodo la rivalità tra le due tifoserie raggiunse probabilmente l’apice…
«Sicuramente. Queste sfide erano davvero sentitissime e con una marea di gente, anche molto calda, ad assistere. Io e i miei compagni percepivamo questa atmosfera e ne eravamo caricati. Soprattutto eravamo molto uniti: ci si incontrava spesso fuori dal campo anche per stemperare le tensioni delle gare. E tutto ciò aiutava a cementare i rapporti fra di noi perché un gruppo, quando è amalgamato, riesce a sopperire alle difficoltà. Anche se devo dire che quella squadra annoverava giocatori veramente bravi e tutti in grado di fare la differenza: non a caso, proprio nel 1978-79 abbiamo vinto il girone A del campionato di Prima Categoria con 7 punti di vantaggio sulla Cairese giunta seconda. Probabilmente molti pensavano che potesse finire a parti invertite, invece è andata bene a noi. Dopo tre anni alla Carcarese sono passato al Vado Boys, con cui ho centrato un nuovo salto dalla Prima Categoria alla Promozione nel 1983-84. Dopodiché sono tornato a casa per vestire la maglia del Quiliano, con cui ho disputato le ultime due stagioni della mia carriera».
In tempo, però, per apporre anche la tua firma alle esaltanti imprese del “dream team” biancorosso…
«Oltre a me, nello stesso anno è rientrato anche Franco Davi, che era arrivato a giocare addirittura in Serie D prima di dover fare i conti con una serie di problemi fisici. C’era già Mauro Brondo, attaccante che aveva militato anche nella Cairese. L’anno successivo è rientrato Massimo Becco… Insomma, si era formata davvero una bella squadra anche perché tutti gli altri giocatori erano validi. Ma soprattutto eravamo una famiglia: con il mitico presidente Fulvio Moirano c’erano dirigenti che erano tali tra virgolette in quanto persone della stessa età o poco più grandi di noi giocatori. E tutti insieme siamo partiti per quell’avventura che ci ha regalato e ha regalato tante soddisfazioni».
Senza dimenticare il personaggio che forse rappresentò come nessuno lo spirito di quella squadra e dei suoi sostenitori: il tecnico Luciano Rossi…
«Sanguigno, è questo il termine più appropriato. E soprattutto era un grande cultore della preparazione fisica. Tuttavia, nel rispetto dei ruoli, ci era consentito anche di scherzare con lui. E il potersi permettere questo è indubbiamente un vantaggio, perché aiuta a stemperare molte cose e anche la fatica degli allenamenti diventa più sopportabile. Diciamo un Gattuso ante litteram, anche e soprattutto per i suoi show in panchina durante le partite: era sempre molto agitato, non smetteva un minuto di incitarci».
E gli spalti diventavano una bolgia…
«Oltre al fatto che il campo quilianese fosse già abbastanza caldo di suo, va aggiunto che all’epoca la gente si recava numerosa a vedere le partite di calcio poiché le altre discipline sportive erano meno popolari e praticate. Se poi in campo andava gente del posto era chiaro che la partecipazione fosse ancora maggiore. Nel periodo in cui io ho giocato a Quiliano, così tanti spettatori si vedevano forse solo a Savona. Non certamente a Vado, perché quello vadese era un pubblico più colto ed esigente ma sicuramente meno passionale: loro rappresentavano i vincitori della prima Coppa Italia e di conseguenza, secondo i tifosi, la squadra doveva sempre giocare bene. A Carcare e a Quiliano la passione era totalmente diversa, sia come numero di persone che materialmente andavano a vedere le partita che come partecipazione alle partite stesse. E per giocatori caratterialmente grintosi come me rappresentavano indubbiamente uno stimolo a impegnarmi ancora di più».
Come è stato per te «passare il ponte» al contrario, cioè approdare da calciatore nel tuo paese nella parte conclusiva della tua carriera?
«All’epoca c’erano le liste di trasferimento in cui giocatori erano di proprietà delle società. Ma poiché io abitavo ancora a Quiliano, non ero ancora sposato, avevo gli amici lì e il campo di fronte a casa, nessuno ha dovuto faticare per convincermi ad accettare: sapendo che prima o dopo avrei dovuto smettere, meglio farlo giocando nella squadra del mio paese. Occorre però fare una premessa: quando io e i ragazzi della mia generazione – 1956, 1957, 1958 – abbiamo cominciato a giocare il Quiliano non c’era più. È rinato, come si sa, alla fine degli anni ’70 come Club Sportivi Quilianesi prendendo nome del mitico circolo del quale io ero parte come frequentazione quotidiana, quello che in altri paesi veniva comunemente chiamato “Bar Sport”. Ma anche a Quiliano era cosi: non si diceva “Vado nel Club Sportivi Quilianesi” ma, molto più semplicemente, “Vado nello Sport”. E per tutti i ragazzi di Quiliano il Club è stato effettivamente un luogo di vita: lì convivevano persone di un’ampia gamma di età e ceti sociali, ognuna delle quali trovava il proprio equilibrio. Gli stessi “anziani” che materialmente comandavano ci ricordavano che già loro avevano realizzato lì un campo da tennis quando ancora questo sport non era molto diffuso, levando i campi da bocce piuttosto che il cinema: una cosa che all’epoca appariva abbastanza particolare. Ripeto, all’interno di quel luogo si univano tante cose ed è un peccato che oggi non ce ne siano più di simili».
Nel frattempo, probabilmente, sono cambiate le abitudini…
«Francamente non so come sia la situazione attuale perché vivo a Carcare ormai da tantissimo tempo. Fino a qualche tempo fa, quando mia mamma era ancora in vita, mi capitava di recarmi a Quiliano. Oggi so che i luoghi di ritrovo sono altri, ma le rare volte che vado non so chi ci sia e ormai non conosco quasi più nessuno. Può darsi che quelli della mia età si trovino in orari diversi rispetto a quelli in cui posso andare io. Ci si incontra sempre volentieri, per carità, ma è chiaro che non è più come farlo al Club, dove in qualunque orario della giornata si trovava sempre qualcuno. E non si discuteva solo di sport, ma di tutto e di più. Basta rifarsi al “Bar Sport” di Stefano Benni per capire quanto quei luoghi fossero particolari per quelli della mia generazione. E quanto fosse un piacere starci».
Come è stato il tuo dopo-calcio?
«Dopo aver smesso di giocare, all’età di 30 anni, sono rimasto nell’ambiente ancora per qualche tempo allenando i ragazzini del Quiliano, della Carcarese dell’Aurora. Successivamente sono passato a ruoli più dirigenziali: verso la fine degli anni ’90 sono entrato nello staff dell’Aurora per dare una mano, quindi ho contributo a favorire la collaborazione tra Aurora e Cairese con risultati, credo, abbastanza positivi. E proprio alla Cairese, fino agli anni ’10 del nuovo millennio, ho vissuto le mie ultime esperienze prima di lasciare definitivamente il mondo del calcio. Senza nessun rimpianto: ho avuto la fortuna di aver trovato altre cose da fare e, di conseguenza, il distacco dal calcio mi è pesato molto meno. Alcuni amici che suonano mi hanno chiesto se volessi andare con loro e così sono tornato al mio primissimo amore che è la musica (da ragazzino suonavo il pianoforte e l’organo in chiesa). Prima o poi tutto cambia e anche per me era arrivato il momento di cambiare».
E anche a Quiliano, negli ultimi anni, sono cambiate diverse cose: dal 2017 la nuova realtà calcistica si chiama Quiliano&Valleggia. Come hai accolto la notizia della fusione tra queste due storiche società?
«Facendomi questa domanda sfondi una porta aperta avendo io partecipato alla, in questo caso tra virgolette, fusione tra Aurora e Cairese. Ai miei tempi un ragazzino che voleva fare sport non aveva alternative al calcio, mentre oggi non è più così: per esempio, nella realtà di Carcare ci sono società che propongono con successo svariate attività sportive e di conseguenza, aumentando le discipline, diminuiscono materialmente coloro che praticano il calcio. E poi i ragazzi, anche attraverso la televisione e Internet, hanno modo di conoscere altri tipi di sport e di praticarli. È una questione di numeri: non si può pensare di avere sempre lo stesso numero di società e che tutte possano trovare spazio, pur operando al meglio delle loro possibilità. Per cui ritengo che la fusione Quiliano e Valleggia sia stata una fortuna. Questa nuova società dispone di un buon settore giovanile che, ricordiamo, si scontra con vivai molto forti e potenti: basti pensare a quelli di Savona, Legino, Veloce e Vado. Solo unendo le forze si può andare avanti, perché in tal modo si riescono a convogliare le risorse. E negli ultimi anni – senza scomodare il 2020, che mi auguro abbia fatto capire tante cose – le risorse sono state sempre meno. Dunque, se divise tra tutti, sono ovviamente meno per tutti. A Quiliano ci sono delle belle strutture, ma è impensabile che ogni società possa averne una: per questo è necessario mettere assieme le forze in modo da gestire queste strutture con buona pace di tutti. La mia frequentazione calcistica non è più assidua, ma mi pare di capire che i risultati si comincino a vedere: ho saputo che alcuni sono rientrati nell’ambito del calcio quilianese dopo esserne stati assenti per un certo periodo e questo fa ben sperare per il futuro».
Per concludere, Flavio: che cos’è ancora il calcio per te?
«Diciamo che, essendo tifoso interista, non sono particolarmente invogliato a vedere molte partite: non riusciamo nemmeno a gioire per aver vinto uno scudetto che subito ricominciamo a penare tra chi vuole andare via e chi deve essere ceduto perché siamo indebitati. Seguo volentieri la Nazionale perché, al di là del fatto che siamo diventati campioni d’Europa e quindi è facile salire sul carro dei vincitori, quella di Mancini mi era sembrata fin da prima una squadra che cercasse di fare qualcosa, di puntare ai risultati anzitutto giocando a calcio. Per il resto, più che altro se mio figlio mi costringe, guardo qualche partita, ma poca roba: non ho Sky né DAZN, mi accontento di guardare quelle che propone la TV. E nemmeno sempre, le vivo con molto distacco. Salvo veder riemergere in me un po’ di inevitabile rigurgito se parlo a livello di tifoso: d’altra parte, l’avevo già detto prima, vent’anni di cultura di “Bar Sport” qualcosa insegnano. E qualcosa lasciano dentro».
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