Non si può comprendere il significato dell’ascesa del Quiliano nel calcio dilettantistico ligure senza la testimonianza di Fulvio Moirano
Medico specialista in igiene e tecnica ospedaliera e specialista in igiene e sanità pubblica con esperienza quarantennale nel campo della Pubblica Amministrazione, fu proprio il presidente a prodigarsi più di tutti si per riportare, dopo quasi vent’anni di pressoché assoluto silenzio, il calcio, in un paese tradizionalmente molto legato a questo sport, consegnando a un’intera comunità una squadra in grado di scrivere pagine indelebili di storia non solamente sportiva. Dunque, che il racconto abbia inizio.
Dottor Moirano, come e quando è nata la sua passione per il calcio?
«Diciamo che mi ha sempre accompagnato. Negli anni 60 non è che Quiliano offrisse molti divertimenti all’infuori del campo di calcio. Appena si usciva da scuola si mangiava qualcosa verso le due, dopodiché si cominciava a giocare e si andava avanti finché non veniva buio. Si giocava con una porta sola nella quale tiravano entrambe le squadre e l’assetto delle formazioni era variabilissimo: chi doveva andare a casa a fare i compiti veniva sostituito in corsa da chi li aveva già fatti».
Che tipo di giocatore era?
«Tecnicamente non ero molto forte. Su quel campo giocavano già ragazzi che avrebbero fatto la storia del Quiliano. A parte il portiere Giampaolo Brondo mio coetaneo, gli altri erano tutti più giovani di me: i gemelli Brondo, Flavio Camici, Massimo Becco, Franco Davi. E poiché il Vado era arrivato anche a giocare sul campo del Quiliano, molti dei giocatori che ho citato sono poi approdati nelle file vadesi. Mentre, nel frattempo, il calcio a Quiliano era inattivo dall’inizio degli anni ’60».
E si sarebbe dovuta aspettare la fine del decennio successivo perché si riattivasse…
«La ricostituzione ufficiale è avvenuta nel 1979 attraverso la fondazione dell’Unione Sportiva Quiliano. La mia idea era quella di aggregare il Club Sportivi Quilianesi con la Società Mutuo Soccorso di Quiliano. Dopo un paio d’anni è stata fondata la Polisportiva Comune di Quiliano, una sorta di prosecuzione della precedente esperienza nella quale sono entrate anche la Società Cattolica di Quiliano e la Società Mutuo Soccorso Aurora di Valleggia. Oltre al calcio sono state lanciate anche discipline come la pallavolo, la ginnastica artistica, il karate e, per un certo periodo, anche l’ippica. Io sono rimasto nella società fino al 1989, quando mi sono sposato e mi sono trasferito definitivamente a Savigliano, dove lavoravo fin dal 1982. Fino ad allora avevo fatto il pendolare, perché a Quiliano avevo mia mamma e i miei interessi: lavoravo dal lunedì al venerdì e il fine settimana tornavo al mio paese. Dopo il matrimonio è cambiata anche la mia disponibilità, ma i dieci anni in cui sono stato presidente della società sono coincisi con quel grande salto in avanti che ci ha portati dalla Terza Categoria fino alla Promozione».
Potremmo dire che tanta attesa è stata ampiamente ripagata, visto che il ricordo di quell’escalation è ancora nitido nel cuore di tutti i tifosi quilianesi…
«Indubbiamente abbiamo avuto anche un po’ di fortuna perché i giocatori che le ho citato poc’anzi, dopo essere arrivati a giocare anche nel Campionato Interregionale, hanno accettato di concludere la loro carriera a Quiliano. Noi li abbiamo innestati uno per uno: se non sbaglio, il primo è stato Mauro Brondo, quindi Camici, Davi, Becco e tanti altri. E con quei calciatori che per la nostra categoria erano un lusso abbiamo vinto tutti i campionati, eravamo quasi imbattibili. Quando ho lasciato c’era ancora una miscela della vecchia squadra partita dalla Terza Categoria: ricordo, per esempio, Giorgio Rapalino e Flavio Bertola, che avevamo preso da ragazzi e ci avevano trascinati fino in Prima Categoria».
Senza dimenticare il calore di un pubblico che trovava pochi riscontri nel panorama del calcio dilettantistico ligure e aveva il suo cuore pulsante nel Club Sportivi Quilianesi…
«Esatto. Il nome “Club” era stata un’idea di Brandini che viveva in Inghilterra, vicino a Oxford. In occasione di una mia vacanza a Londra insieme a mia madre, mia moglie e mia suocera ero andato a trovarlo perché mia mamma lo conosceva e teneva molto a rivederlo. Nel suo peregrinare tra Inghilterra e Italia, Brandini aveva contribuito appunto alla fondazione del Club Sportivi Quilianesi con una scissione dalla Società di Mutuo Soccorso Fratellanza Quilianese. I giovani di allora, credo nel 1949, hanno creato la nuova società e la prima squadra di calcio chiamandola “Club”, all’inglese. Negli anni ’70 alcuni dei vecchi, tra cui mio zio, hanno fatto costruire, lavorando essi stessi, il campo da tennis, un qualcosa di decisamente “borghese” per Quiliano. E siccome, all’epoca, d’inverno pioveva molto e non era possibile giocare, insieme a mio padre che lavorava a Milano eravamo andati a vedere i campi coperti e avevamo comprato come Club un pallone pressostatico che si gonfiava con l’aria con il quale dotare il campo di Quiliano. In seguito è stata realizzata una struttura in legno fissa, ma già quel campo rappresentava un’importante fonte di sostentamento del Club. Mentre le altre società che ho citato davano circa 500.000 lire all’anno alla società sportiva di calcio. E poiché soldi non ce n’erano, io dicevo sempre ai giocatori: “Noi vi diamo quello che il vostro spettacolo ci fa incassare”».
E poiché di spettacolo ne hanno regalato parecchio, come è andata negli anni successivi?
«All’inizio ai giocatori non compravamo neppure le scarpe perché, come detto, i soldi erano quelli che erano. Una volta arrivati in Prima Categoria abbiamo cominciato a comprare le prime borse e tute. Quando militavamo in Terza e Seconda Categoria ci capitava frequentemente di recarci in Valbormida: ricordo il fortissimo Bragno che avevamo affrontato in Seconda Categoria; il Ferrania, dal campo molto stretto, in cui giocava un bravissimo attaccante di nome Secci; il Camerana, che giocava anch’esso su un terreno piuttosto complesso. In Prima Categoria, invece, andavamo principalmente in Riviera perché eravamo inseriti in quel girone. Tutte esperienze interessanti che mi fa sempre piacere ricordare».
E poi lei può dire di essere stato un presidente giovanissimo, visto che ha assunto la carica a 27 anni. Ecco, che cosa ha rappresentato per un ragazzo di quell’età essere al vertice della squadra di un paese tradizionalmente legato al calcio come Quiliano?
«Per la verità non me sono neppure accorto, in quanto fin dall’età di 18-19 anni ero un tipo organizzativo e mi sono sempre occupato di aggregazione. Già in precedenza ero vice presidente del Club Sportivi Quilianesi e vivevo molto quell’ambiente, per cui l’assunzione della presidenza è stata un fatto abbastanza naturale. A Quiliano l’interesse per il calcio è sempre stato forte: anche durante i quasi vent’anni in cui il paese non ha avuto una squadra – se si eccettua la parentesi del Cadibona – c’erano molti giocatori quilianesi che militavano in altre compagini. A Vado Ligure, per un certo periodo, la squadra del Vado ha convissuto con quella del Vado Boys che giocava sul campo di Quiliano. Fino a quando io non ho cominciato a impuntarmi dicendo: “Ma questo campo è di Quiliano, quindi adesso ci giochiamo noi!”. Pertanto abbiamo coinvolto il Comune, che aveva esso stesso interesse alla ricostituzione della squadra, e attraverso tutta una serie di interventi abbiamo raggiunto l’obbiettivo. Anche in altri campi ho realizzato aggregazioni di questo genere e non solo nel calcio. Tuttavia, guardandomi indietro, riconosco che ero abbastanza giovane per rivestire una carica di questo genere».
Evidentemente il senso dell’organizzazione era nel suo DNA…
«Mi piaceva molto, ma era anche necessario nell’ambito della mia carriera lavorativa. Proprio in quegli anni, quando mi stavo specializzando, mi sono occupato di guardie mediche e sostituzioni alla Croce Bianca di Altare, a Millesimo e presso il dispensario di Cairo Montenotte: praticamente c’ero solo io e quando ricevevo telefonate mi capitava di dovermi recare in paesi come Piana Crixia. Ma era una cosa che mi piaceva fare. C’era un mio amico che diceva che tra il “si può”, il “si deve” e il “mi piace”, la gente, se ce la fa, cerca sempre di scegliere quest’ultimo. E io, quando ho potuto, ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva anche in campo medico. Nel periodo in cui mi stavo laureando mi ero accorto che la parte che preferivo era quella organizzativa; pertanto avevo scelto igiene e organizzazione ospedaliera come specialità, ottenendo in seguito anche quella in igiene e sanità pubblica. Per quanto alla carriera medica sono stato ispettore, vice direttore, direttore sanitario e coordinatore sanitario; successivamente, dal 1° gennaio 1995, sono diventato direttore generale, incarico che ho ricoperto fino alla pensione. Attualmente ho una piccola società che si occupa di formazione in giro per l’Italia».
E una squadra che aveva così tanta voglia di emergere non avrebbe potuto avere una figura chiave più appropriata. Tuttavia la componente della passione era imprescindibile per il raggiungimento di certi risultati…
«Avevamo tutti quanti molta più energia. Gerry Giusto ricorda sempre quella partita a Camerana: Franco Davi, in quell’occasione, era assente perché sua moglie aveva partorito e i nostri avversari lo sapevano. Aveva nevicato molto e tutti pensavano che non si giocasse. Noi eravamo andati a Camerana il sabato per verificare il terreno e avevamo riscontrato che era completamente coperto di neve. Ci siamo detti: “No, non si può giocare” e invece, l’indomani, il campo era completamente sgombro: i nostri avversari, che in quel momento erano secondi in classifica, l’avevano ripulito pensando di poter giocare la partita avvantaggiandosi del fatto che Davi fosse indisponibile. Invece, sul terreno ghiacciato, vincemmo nel finale grazie a un gol di Brondo. Ancora adesso Gerry cita una frase che dissi prima della partita: “Pensa un po’ se, dopo tutta la fatica che hanno fatto a spalare, questi perdono ancora con un gol all’ultimo minuto!”. Così fu. Ricordo poi una partita a Cervo San Bartolomeo sul campo della Cervese davanti a spalti gremiti. Loro in quel momento erano primi in classifica e noi facemmo una partita strenuamente difensiva. All’ultimo minuto Davi, che non era un gran colpitore di testa, spizzò una palla e segnò il gol decisivo. I padroni di casa, che già si lamentavano continuamente chiedendo rigori che non c’erano, impazzirono letteralmente. A me sono sempre piaciute le vittorie di questo tipo; ciò che invece non ho mai digerito sono le sconfitte subite quando, magari, eravamo in vantaggio di due reti. E quando non si è più abituati alle sconfitte, come in quei due anni in cui siamo rimasti imbattuti, bruciano ancora di più».
Ma qual era il vero segreto del vostro successo?
«Noi abbiamo disputato campionati molto importanti per quelle categorie perché eravamo più forti delle altre squadre, avendo calciatori di categoria superiore inseriti in una squadra giovane e desiderosa di emergere. Quando ancora eravamo in Terza Categoria mi incontravo con Ciarlo, il vecchio presidente del Vado – all’epoca, se non sbaglio, in Interregionale – e insieme parlavamo di giocatori. Ciarlo mi diceva: “Ma per la vostra categoria…” e io gli rispondevo: “Ma guarda che le categorie nostre sono le stesse”. “Ma come le stesse?” chiedeva lui. E io rispondevo: “Noi sicuramente arriveremo in Prima Categoria e, forse, anche in Promozione. La vostra categoria è la Promozione e quindi, praticamente, siamo pari grado”. Il mio ragionamento era basato sui bacini di utenza delle squadre: Quiliano contava 7-8 mila abitanti, Vado ne avrà avuti 10.000. Esistendo a Quiliano anche le squadre del Cadibona e del Valleggia e avendo creando noi un’unità di intenti, era chiaro che fossimo destinati a salire. Mentre se il Vado si trovava in una categoria superiore rispetto al proprio bacino di utenza era proprio grazie a Ciarlo che metteva i soldi. Le squadre si possono fare in due modi: o perché si dispone di un bacino naturale, o perché qualcuno dall’esterno butta soldi dentro tipo gli sceicchi, come nel caso del Paris Saint-Germain o del Manchester City, che ha addirittura dovuto attendere oltre quarant’anni per rivincere il campionato inglese. Il discorso è abbastanza semplice: mettendo un mucchio di soldi in perdita è ovvio che si possano fare grandi campionati con i giocatori più buoni. L’altra strada, quella che avevamo scelto noi perché di soldi non ne avevamo, era lavorare sulla compattezza e sul senso di appartenenza di una comunità, di una storia. Sembra incredibile, ma sono cose che funzionano e questo è stato per noi motivo di grande soddisfazione. Noi abbiamo avuto giocatori di trent’anni che, avendo già dato ad alto livello ciò che dovevano dare, preferivano concludere la carriera nella squadra del loro paese. E, di conseguenza, giocavano con più impegno».
E questo senso di appartenenza era percepito dal pubblico, visto che sugli spalti il Quiliano totalizzava persino più spettatori del Vado…
«Per cui un certo periodo sì, soprattutto quando abbiamo vinto campionati a ripetizione e siamo stati due anni senza perdere una partita, tenendo conto che cominciavano ad affacciarsi le prime televisioni a pagamento e finivamo in competizione con i campionati di Serie A. E anche il calcio locale iniziava a non essere più così interessante come lo era una volta per noi, quando cominciavamo alle due del pomeriggio e finivamo alla sera. Molti cominciavano a dedicarsi ad altre discipline: chi pallacanestro, chi pallavolo, chi tennis… Oggi i tempi sono cambiati, è molto difficile far sopravvivere certe squadre in certe categorie. Negli anni ’60 il calcio era l’unico sport che c’era, oggi è uno dei tanti. E infatti stiamo crescendo in molte discipline in cui prima non eravamo per niente presenti».
Per concludere, dottor Moirano: a distanza di tanti anni, che cosa le rimane di quella meravigliosa avventura?
«Anzitutto il fatto che eravamo tutti molto più giovani. Poi tutti gli amici con i quali l’ho condivisa: a parte Rapalino e Bertola, che comunque non arrivavano dall’Oklahoma ma da Savona, moltissimi giocatori di quella squadra – compreso l’attuale presidente Landucci, nipote del grande Francesco – erano e sono persone che tuttora abitano a Quiliano e che ogni volta che io torno in paese per andare a trovare mia mamma basta che io suoni alle loro porte e loro arrivano. E insieme a tutti gli amici che ci sono ancora oggi mi resta il ricordo di un’esperienza per me all’epoca abbastanza importante anche dal punto di vista dell’impegno settimanale poiché avevamo gli sponsor e, comunque, un minimo di attività amministrativa da svolgere, oltre che da valutare ogni anno quali giocatori prendere e quali no. Noi miravamo sempre a non prendere troppo: tre giocatori al massimo. Ed è stata sempre un’arma vincente. Per quanto riguarda invece gli allenatori, non abbiamo mai avuto un grande entusiasmo verso di loro: come era solito dire Gerry Giusto, l’importante era che non mettessero due ali dalla stessa parte. A Luciano Rossi, che di professione lavorava alla Piaggio, dicevamo: “Speriamo che anche gli aerei non li fai come le squadre mettendo due ali dalla stessa parte”. Intanto, però, ci ha portati dalla Terza alla Prima Categoria; forse a sbagliare siamo stati noi cambiandolo».
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