Se qualcuno dovesse mostrarsi dubbioso sul fatto che lo sport contribuisca a superare ogni tipo barriera, tali dubbi sono destinati a dissiparsi definitivamente di fronte alla testimonianza e all’esempio di Sebastiano Gravina, bomber della Quartotempo Firenze e capitano della Nazionale italiana di calcio non vedenti. Ecco il racconto della sua vita di calciatore: una testimonianza a margine del convegno “Sport senza limiti” tenutosi recentemente a Quiliano e di cui è stato una dei protagonisti.
BORIS CARTA
Classe 1990, barese di origine ma pietrese di adozione poiché nella cittadina rivierasca si è trasferito con la propria famiglia e tuttora vive insieme alla moglie, lavora come programmatore di siti web, gestisce un e-commerce ed è un content creator conosciuto come “Videociecato”, ma a cambiare in modo significativo la sua vita aveva pensato già da tempo il calcio: una passione coltivata fin da bambino, che neppure le difficoltà legate alla condizione in cui è costretto a vivere fin dalla nascita ha mai potuto fiaccare.
«Proprio così, anche se l’ho realizzata tardi poiché non sapevo che in Italia il calcio per non vedenti esiste addirittura da prima degli anni ’90, da quando non esisteva la palla sonora e si giocava con un pallone normale messo o in un sacchetto per far rumore, oppure in una rete con appesi dei tappi, sempre per il rumore. Io l’ho scoperto nel 2007, quindi pensa dopo quanti anni. Prima facevo tutt’altro, ma il mio sogno era sempre stato quello di poter giocare a calcio. All’età di 9-10 anni facevo parte di una squadra normale, di vedenti, ma ovviamente non potevo disputare le partite e mi limitavo a svolgere gli allenamenti: mi faceva stare bene indossare la maglia di una squadra calcistica e sentirmi parte di un gruppo. Fa un po’ ridere dirlo, ma credevo talmente tanto nella possibilità di realizzare questo mio desiderio – nonostante, come detto, non sapessi dell’esistenza di questa disciplina – al punto da… autointervistarmi sotto la doccia: mi facevo le domande e mi davo le risposte da solo perché sognavo di vivere, un giorno, questa esperienza. E tutto ciò che avevo nella mente si è realizzato esattamente come l’avevo sognato»
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E quali… autorisposte ti davi?
«Erano risposte anche un po’ senza senso. Mi facevo le classiche domande che i giornalisti rivolgono ai calciatori prima o dopo una partita e poi mi autorispondevo. Mi sento anche scemo a raccontarlo, ma era la realtà dei fatti: parlavo sotto la doccia immaginandomi in quelle situazioni. Ho iniziato a giocare a calcio poco prima di compiere di 17 anni grazie a una maestra del doposcuola che mi aiutava a fare i compiti a casa, la quale mi ha messo in contatto con un ragazzo non vedente che giocava a calcio. Ho sostenuto una specie di provino al fine di verificare, oltre che se la cosa potesse piacermi, anche se fossi idoneo o meno in quanto le capacità a livello di autonomia personale richieste sono abbastanza elevate. Una volta superato il provino è iniziata questa bella avventura».
Quale è stata la formazione con cui hai esordito?
«La mia prima squadra è stata il Liguria Calcio, nella quale ho militato per 12 anni. All’epoca del mio esordio collaborava con la Sampdoria e per questo giocavamo con le maglie blucerchiate, che conservo ancora a casa. Ero doppiamente felice: non solo avevo realizzato il sogno di giocare a calcio, ma indossavo la maglia di una compagine di Serie A. Dopo pochi mesi mi è arrivata la prima convocazione in Nazionale che, però, ho rifiutato perché mi ero appena fidanzato con colei che è la mia attuale moglie. Ovviamente accettai tutte le successive».
E le prime soddisfazioni che il calcio ti ha regalato?
«Anzitutto, come detto, quella di ritrovarmi in campo con una maglia e un numero sulla schiena. E poi, ovviamente, la gioia del primo gol: giocavamo una partita nelle Marche e io segnai la rete del definitivo 3-0. Ma una delle esperienze più belle è stata sicuramente quella dell’Europeo del 2011 al quale, peraltro, non avrei neppure dovuto partecipare perché ero troppo giovane e, almeno sulla carta, non ancora pronto. Accadde, però, che un mio compagno di squadra che era tra i titolari inamovibili si infortunò una settimana prima di partire e io, da un giorno all’altro, mi ritrovai convocato per il preraduno antecedente la partenza per la Turchia, sede del torneo».
Immagino che l’adrenalina sia stata a mille dopo quella convocazione inaspettata…
«Non ci credevo e non capivo nulla, d’altra parte avevo compiuto da poco 20 anni. Ma ero talmente galvanizzato e stavo talmente bene fisicamente che durante il torneo andavo a duemila, ero velocissimo. Partito in Nazionale praticamente come ultimo tra coloro che avrebbero potuto giocare, sono stato mandato in campo nel secondo tempo della prima partita e non sono stato più tolto perché ho sempre giocato bene. Un grande Europeo, davvero».
Dopo la lunga militanza nel Liguria Calcio sei approdato nella Quartotempo Firenze, la tua attuale squadra. Con quale spirito hai accolto il trasferimento?
«Dopo tanti anni trascorsi in una squadra ti viene il desiderio di cambiare un po’ aria. Ma non perché non ti trovi bene o non ti piace l’ambiente, quello è relativo: lo fai anche perché vuoi metterti in gioco. A me, poi, è sempre piaciuto crearmi delle difficoltà per superarle, per cercare di capire dove posso arrivare. E quindi, per migliorarmi e mettermi in sfida con me stesso, mi sono detto: “Che cosa posso cambiare?”. Così, avendo saputo che questa società gestita dalla Fiorentina cercava un attaccante, ho colto la palla al balzo e mi sono gettato in questa nuova avventura. Difficilissima, trattandosi di un ambiente molto professionale e distante da casa che mi costringe a faticosi viaggi avanti e indietro per sostenere gli allenamenti. Però l’ho accettata con grande entusiasmo: avevo bisogno di questa esperienza per crescere».
E quando ci sono la passione e la voglia nessun ostacolo è insormontabile…
«Sono d’accordo, le paure e i dubbi sono solo scuse per non fare. Se hai l’amore e la passione non ci sono scuse, se credi veramente in un sogno non c’è niente che ti possa fermare: fai qualunque cosa e non te ne frega niente. Non cominci a dire “Eh, però è lontano; eh, però è difficile; piove, fa freddo…”: fai e basta. Io non nascondo le grandi difficoltà che ogni volta incontro nel fare un viaggio da Pietra Ligure a Firenze, tra i cambi dei treni e la linea ferroviaria che, come sappiamo benissimo, in Liguria non è perfetta. Però ho accettato e ancora oggi gioco là, perché la passione e l’amore per il calcio mi fanno andare oltre i problemi».
Tra i successi che hai ottenuto nel corso della tua ormai non più breve carriera, quali sono quelli a cui sei più legato?
«Non ho ancora vinto né il campionato né la Coppa Italia, ma già i riconoscimenti conquistati a livello personale – come quello di miglior giovane del 2009-10, il titolo di capocannoniere del 2017 e il raggiungimento della Nazionale – valgono per me come vittorie perché rappresentano il coronamento di un sogno. Così come hanno un sapore particolare gli incontri disputati e vinti con la Nazionale».
D’altronde si dice spesso che la vittoria più bella sia quella ancora da conquistare…
«È vero, anche per me è così. Lo scopo per cui lavoro è sempre quello di cercare di migliorarmi, di fissarmi altri obiettivi e raggiungere nuovi traguardi. E il traguardo più bello e più importante è sempre quello successivo: non sai bene quale sarà, ma è sempre l’ultimo».
Allora, a questo punto, puoi svelare quali saranno i tuoi prossimi obiettivi?
«Prima di smettere di giocare a calcio vorrei vincere lo scudetto. Al momento del trasferimento nella Quartotempo Firenze mi ero promesso di contribuire alla conquista del campionato perché si tratta di una società fantastica, che mette anima e cuore in tutto ciò che fa e merita davvero di portare a casa un trofeo così importante. Poi, ovviamente, mi auguro di riuscire a mantenere il mio posto in Nazionale e di andare a giocare i Mondiali con la fascia da capitano che tuttora indosso. Ti confesso che quella fascia talvolta rappresenta un peso per me: non perché non mi piaccia portarla, sia chiaro, ma per le responsabilità che essa comporta. Devi sempre dimostrare ai tuoi compagni che te la sei conquistata e ogni volta metterti in gioco per meritare di mantenerla, sarebbe un grave errore sentirti arrivato per il fatto di essere capitano».
E qual è l’identikit del vero capitano in un campo così particolare come il calcio per non vedenti?
«Nel calcio, come saprai, esistono tanti tipi di capitani: il carismatico, il tecnico, il leader… Io, sinceramente, non so a quale categoria appartengo ma cerco semplicemente di essere me stesso. Sicuramente è un giocatore che deve dare l’esempio, dimostrarsi disponibile, capace di capire i momenti della squadra e soprattutto dei singoli: nel momento in cui un compagno è in difficoltà deve essere lui il primo ad aiutarlo, dargli una pacca sulla spalla, dirgli una parola di conforto e, se necessario, sgridarlo per spronarlo. E poi lavorare in silenzio e a testa bassa, senza starsi a lamentare: l’esempio è sempre l’arma vincente di un capitano come di ogni giocatore professionista».
Nel frattempo, alle soddisfazioni che ti regala il calcio giocato, si aggiunge la tua grande popolarità sui social…
«Quella che si sta rivelando una delle esperienze più belle della mia vita al di là dello sport è nata per gioco, quando ho iniziato a pubblicare video su TikTok. A me è sempre piaciuto stare davanti a una telecamera, ma non per esibizionismo: semplicemente perché mi fa sentire bene parlare e raccontare. Il primo video che ho pubblicato mi riprendeva mentre cucinavo delle zucchine: il mio intento era quello di far capire alle persone che un non vedente può vivere una vita normale, anche semplicemente mostrandosi in casa propria mentre prepara da mangiare. Una volta constatato che il video era piaciuto e aveva ricevuto diversi commenti mi sono chiesto che cos’altro avrei potuto far vedere: così mi sono fatto riprendere mentre attraversavo la strada per mostrare la mia vita quotidiana. Quel video ha avuto un sacco di visualizzazioni e mi ha convinto a realizzarne altri, ma sempre per divertimento, senza pensare di arrivare chissà dove: cerco solamente di essere simpatico e ironico, mi prendo in giro, talvolta anche utilizzando un linguaggio un po’ scurrile. Devo riconoscere di aver avuto anche un po’ di fortuna perché il successo dei video mi ha permesso di ottenere anche interviste in radio e in televisione con personaggi come Selvaggia Lucarelli e Valerio Lundini, dandomi quella spinta in più che male non fa. Oggi vengo definito una star del web e, secondo me, l’appellativo è un po’ esagerato; però è indubbio come attraverso “Videociecato” – questo il nome del mio canale – cerchi di “influenzare” le persone, disabili e non, mostrando sui social ciò che io vivo tutti i giorni».
Neppure la scelta del nome del canale è casuale, direi…
«Già due anni fa avevo aperto questo canale su TikTok, ma è solo da 6-7 mesi che lo sto utilizzando. Non sapendo come chiamarlo mi sono detto: “Mi sto facendo i video da solo, sono ciecato… lo chiamo ‘Videociecato’!”. Un nome ironico che mi è venuto in un secondo».
Ma efficace abbastanza per sensibilizzare l’opinione pubblica su una tematica così importante e delicata…
«Penso di sì, perché è un nome che deve far pensare e riflettere: come può esistere un video “ciecato”? E poi sono convinto che ad attirare sia anche il mio modo spontaneo di stare davanti alla telecamera. Non so quanto durerà, spero sempre, ma se un giorno dovesse finire si tratterà comunque di una parentesi molto molto bella. Grazie a questa iniziativa si stanno aprendo parecchie porte ma a questo mondo, allo stesso modo in cui si aprono, se ne chiudono tantissime. Speriamo che almeno una rimanga aperta».
In cui continuare a segnare. E non soltanto in campo…
«Infatti, è nella vita che bisogna sempre fare gol realizzando gli obiettivi e i sogni. Per adesso io sono riuscito a realizzare tutti quelli che avevo nella mente, nonostante fossero in molti a dirmi: “Ma no, non ce la fai, ma figurati, non ci riuscirai, ma cosa pensi, sono solo sogni…”. Invece io, zitto zitto, ce l’ho fatta. Anche perché alcuni sogni non li ho mai raccontati a nessuno: a volte il segreto è anche tenere i propri sogni per sé, in modo da non farsi buttare addosso acqua che possa spegnere il fuoco interiore».
Quindi, così come per le vittorie, direi che il sogno più bello sia quello ancora da realizzare…
«E io devo ancora scoprire quale sia. Quando lo scoprirò te lo dirò (ride)».
Per concludere, Sebastiano: a chi pensi di dover dire maggiormente «grazie» per quanto hai raggiunto finora e per quanto raggiungerai sicuramente in futuro?
«Anzitutto a mia moglie, che mi sostiene sempre e ha molta pazienza (e anche molto coraggio per stare con un matto come me). Poi un “grazie” speciale va alla mia famiglia e a Simone, il mio manager, che io definisco il mio “bastone digitale”: è con lui che è iniziata l’avventura di “Videociecato”, è insieme che la stiamo vivendo ed è lui che mi dà una mano a superare le barriere digitali, come ad esempio il montaggio video con scritte e grafica che, naturalmente, un ciecato da solo non potrebbe fare. E, ovviamente, alla mia “famiglia digitale” che sono i miei followers: senza il loro seguito il successo non esisterebbe. Mi piace quando la gente mi ferma per strada per fare foto: non perché mi senta importante, ma perché mi fa piacere rendere felici le persone e contraccambiare qualcosa che loro mi fanno vivere».
Non pensi, a questo punto, di dover ringraziare anche un po’ te stesso?
«Sai cosa ringrazio, in realtà? Il fatto di non vederci niente, di essere un “cieco di merda” (ecco il linguaggio di cui ti avevo parlato). Mi chiedo come sarei stato se non fossi stato non vedente e non mi so dare una risposta. Io ho due fratelli e se questa situazione è capitata a me vuol dire che era la cosa migliore che dovesse succedermi. Credo nel destino, penso che se mi è capitato un motivo ci sia e stia a me scoprirlo. E piano piano, forse, lo sto scoprendo: dovevo dimostrarmi capace di vivere in questa situazione e sopportare ciò che essa comporta. Pertanto, anche se è brutto dirlo, ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di vivere la vita in questo modo: l’importante è sentirsi bene, capire e accettare i propri limiti ma allo stesso tempo sfruttarli per trovare stimolo nel capire come poterli superare. E spesso è proprio chi vive queste difficoltà a trasmettere energia positiva alle persone “normali”, che talvolta si piangono addosso per delle stupidaggini quando ci sarebbero motivi ben più grandi per lamentarsi. Mentre invece quelli come me e tanti altri non si lamentano, perché sono maggiormente concentrati sulle difficoltà da superare che sulle lacrime da versare».
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