Simone Graziano, barista di Pietra Ligure, è assurto a notorietà nel mondo dei social in veste di assistente – o, meglio, manager, o, meglio ancora, “bastone digitale” – di Sebastiano Gravina, bomber della Quartotempo Firenze e capitano della Nazionale italiana di calcio non vedenti. Eppure sembra schermirsi di fronte a questi titoli, preferendo puntare l’attenzione su una straordinaria storia di amicizia. Ce la racconta, a margine del convegno “Sport senza limiti” che si è tenuto qualche settimana fa a Quiliano.
BORIS CARTA
«Esatto. Perché, in realtà, io non sono nient’altro che un amico di Seba. Potrei dire che mi fingo suo manager perché, nel mondo in cui siamo introdotti, è necessaria una figura che tuteli e, soprattutto, aiuti a non inciampare poiché lui non ha la possibilità di vedere quello che vedo io. Semmai vede altre cose molto più importanti che io non vedo. È proprio per questo motivo che ci siamo incontrati: ero il suo barista di fiducia ed eravamo entrambi ragazzi residenti nel centro di un paesino ligure. Insomma, due trentenni che dovevano realizzare qualcosa nella loro vita. E siccome io ho la passione per i video, giusto per gioco ci siamo detti: “Perché non ne facciamo insieme? Dai, proviamoci!”».
E da lì è iniziata la vostra meravigliosa avventura: una sorta di “social sociale”…
«In un certo senso, più che un attivista, mi sento un estremista di questo mondo. Perché dico questo? Perché, quando parlo con un disabile, non ricevo quelle emozioni che forse vengono trasmesse ad altri: semplicemente, lo vedo così com’è. E quando la gente mi dice: “Cavolo! Bravi, state sensibilizzando un qualcosa” provo un senso di fastidio. Dovevano già saperlo, non serve elogiare questi ragazzi se poi, come è successo, quando si qualificano a un Mondiale nessuno ne parla. Io sono stato bloccato nello scrivere certe cose sui social perché in quell’occasione ero arrabbiato nonostante Seba, da capitano della Nazionale, fosse giustamente contento. Quei ragazzi, ancora più che un riconoscimento, si dovevano meritare un pubblico. E per pubblico non intendo quel gruppo di persone che sorridono perché sia stato testimoniato il fatto che un disabile abbia dimostrato qualcosa. Io voglio per loro un pubblico reale, che aspetti di assistere a quella determinata partita o competizione che questi ragazzi andranno a svolgere. Non è tutto Paralimpiadi: c’è tanto sport, non solo nelle discipline paralimpiche, che non viene vissuto come dovrebbe. Si dice spesso che lo sport è la nascita e la vita: sì, sono d’accordo, a patto che la possibilità di praticarlo venga data a tutti».
Purtroppo, però, la strada da percorrere in tal senso è ancora lunga…
«È Seba a tenermi calmo, altrimenti io scenderei in piazza in prima fila per questi ragazzi. È lui che mi sta facendo vedere la vita come tutti noi dovremmo vederla: con molta più semplicità. Per me è una lotta, ma il più delle volte è lui ad accompagnarmi in questa lotta, non il contrario. Ecco perché ti volevo regalare questa perla di cui, forse, non ho mai parlato a nessuno. In molti, anche qui in paese, mi hanno chiesto che cosa mi portasse ad aiutare Seba commentando con le solite frasi di circostanza: “Oh, che bravo, stai realizzando un sogno a questi ragazzi…”. Assolutamente no, io combatto la mia guerra. Ed è una guerra che non sapevo neppure di avere tra le mani: è stato Seba a regalarmi una visione della vita totalmente diversa. Anzi, devo essere sincero: sono molto più incazzato di tante cose nella vita da quando Seba ha cominciato a farmele vedere in un certo modo. E miseria se c’è da incavolarsi! Non per le barriere architettoniche fatte male, ma per le barriere mentali: se non sblocchiamo queste ultime – il compito che io e Seba ci siamo dati sui social – non possiamo abbattere le prime. Si parla tanto di discriminazioni e di diritti, ma ogni volta si assiste alla stessa scena: una persona a terra viene sempre scavalcata dai passanti. Però, poi, magari viene messo un like sul post di qualcuno che sta male. No, non mi va: per questo combatterò e starò sempre al fianco di Seba nella sua battaglia. Però ho anche una mia vita, non posso – e questo Seba lo sa benissimo – stargli accanto in tutto. E neppure voglio farlo perché non sono il suo accompagnatore ma, come ho già detto, semplicemente un suo amico che crede con lui in determinate cose. Siamo due boomers di trent’anni che sono finiti a fare video su TikTok e su Instagram come dei ragazzini per cercare di urlare qualche cosa a un pubblico. E urliamo forte: talmente forte che Seba ha cominciato a farsi conoscere anche al di fuori dell’ambito sportivo. Io non voglio intromettermi nel mondo del suo sport perché quella è la passione primaria in cui lui ha creduto fin dall’inizio: gli faccio i video, gli dico come deve apparire meglio e quando andrà in onda, perché amo stare dietro alla telecamera e non davanti. E a Seba, purtroppo devo dirlo, servono occhi».
Ripenso alla frase che hai detto poc’anzi: quando parlo con un disabile non ricevo quelle emozioni che forse vengono trasmesse ad altri ma lo vedo così com’è. Come dire che vedi oltre…
«Però non è successo subito. Spesso ricevo sui social messaggi di persone che hanno un amico, un figlio, un fratello o una sorella disabile e chiedono personalmente a me in qualità di assistente di Seba – anzi, per meglio dire, di “bastone digitale” con cui camminare nel mondo dei social – che cosa si debba fare per svolgere questo ruolo. Io rispondo loro che noi siamo solo due amici che si mandano messaggi del tipo: “Stasera ci sei che ci beviamo una birra e facciamo un video? Domani che fai? Devo stare con mia moglie, devo andare all’Ikea. No, che palle, potevamo fare quel video…”. Si tratta di un’amicizia per me talmente naturale che non ho bisogno di provare emozioni nel vedere un disabile fare qualcosa che per certe persone potrebbe essere anormale: non c’è niente di anormale, sta semplicemente vivendo. Mi è capitato di vedere certe cameriere scandalizzarsi quando ordinavamo un secondo cocktail: perché, Seba non si può ubriacare? Tanto per tornare a casa devo guidare io, mica lui. Vorrà dire che lui si beve due drink e io un Estathé (ride)».
E visto che stai ridendo, raccontami qualche aneddoto divertente: immagino che non si contino…
«Il più recente si è verificato in occasione di un viaggio in aereo a Roma da cui raggiungere poi San Giovanni Rotondo, dove ci siamo recati per un progetto sportivo. Quando l’aereo atterra capita spesso che i passeggeri abbiano fretta di prendere il bagaglio a mano nella cappelliera; e siccome noi ci trovavamo nei primi posti, ho detto a Seba: “Lasciamo uscire tutti, così facciamo le cose con calma”. La gente intorno a lui aveva capito che era non vedente, perché per tutto il viaggio avevo scherzato con lui dicendogli se volesse andare a pilotare. Al momento dell’atterraggio, una volta passati i primi, gli altri si sono bloccati per far passare noi. Io, preso dalla foga, urlo a Seba: “Dai, facciamo veloci che ci fanno passare” e lo tiro via, senza pensare né che lui non vede né che le cappelliere erano aperte. Fatto sta che gli ho fatto prendere una testata tale che tutto l’aereo mi ha guardato con certe facce come per dire: “Ma come lo accompagna, questo…”. Però il senso è quello. Una volta arrivati a Roma, non essendo famosi e, di conseguenza, non potendoci permettere taxi a tutto spiano, che cosa abbiamo fatto? Siamo andati in metropolitana, che a Roma sappiamo benissimo che cosa sia: un carnaio. Ma era un’esperienza che andava fatta, senza pensarci troppo. Un altro aneddoto che mi piace sempre raccontare riguarda le volte in cui mi reco a casa di Seba per lavorare con lui. Ogni volta che arrivo sotto casa sua – neanche in casa sua, sotto – rido tanto da star male. E sai perché? Perché ha il videocitofono. E ogni volta che lo vedo sto male, non riesco a trattenermi dal ridere. Noi siamo così: ci piace prenderci in giro, perché la nostra è un’amicizia vera. E, attenzione, non di vecchia data: noi due siamo amici soltanto da un anno».
Detto del videocitofono, quali sono state le prime impressioni che hai avuto dopo aver varcato la porta della sua casa?
«Ricordo le domande che mi facevo. A un certo punto Seba mi dice “Siediti che è pronto da mangiare” e io “Bene, chissà cosa mi aspetta…”. Dopo aver visto lui e la moglie scolare l’acqua della pasta a 100 gradi tenendo il dito vicino per capire dove stessero scolando, con un rischio pazzesco di bruciarsi, dalla volta successiva non mi sono più posto questi interrogativi. Anzi, mi sono accorto di non aver fatto niente nella mia vita. Ed è in quel momento che passi da un estremo all’altro: anziché dire “Poverini” pensi “Che bravi! Grandi! Ma come fanno? Ma che forza!”. Fino a quando non dici: “Ragazzi, ma sta facendo un piatto di pasta, se ha il suo modo ha il suo modo! Se a me piace girare il mestolo a sinistra invece che a destra lo giro a modo mio, se a lui piace appoggiare il dito lo appoggia a suo rischio e pericolo!”. Quante volte mia madre mi ha detto che sbagliavo a tagliare le carote in un certo modo, rischiando di tagliarmi un dito… Pazienza, il mio modo è questo e faccio così».
Se dovessi rappresentare il vostro rapporto con il titolo di un film, quale sceglieresti?
«Hai presente Quasi amici? Bé, è questo, perché quel film lo spiega veramente bene. Non lo spiega nella trama, ma si capisce guardandolo: dall’essere eccessivamente premurosi – come sono tuttora io con Seba, ci mancherebbe altro – si passa a superare senza problemi ogni difficoltà. È questa la magia, la naturalezza del nostro rapporto. Anche mio figlio, che ha tre anni e mezzo, è ormai a contatto con questa realtà e si diverte a giocare con Seba. E non sa che è non vedente, non può percepirlo: per lui il bastone serve a evitare gli ostacoli. Ecco, è con gli occhi dei bambini che bisognerebbe iniziare a guardare il mondo dei disabili. Così come tante altre cose».
Un anno di amicizia, ma sembra una vita da quanto traspare dalle tue parole. A questo punto mi viene spontanea una domanda: quali sono i vostri progetti per il futuro?
«Sono tanti, ma non è sempre facile realizzarli poiché entrambi abbiamo una famiglia, un lavoro e una vita nostra. La scorsa estate eravamo molto presenti sui social, stavamo andando forte, ma a Seba ho dovuto parlare chiaro: “Guarda che io ho un’attività al mare, mi devo stoppare per tre mesi”. E lui mi ha risposto: “Certo, devi andare avanti, per carità! Stoppiamoci e riprendiamo dopo con calma”. Anche perché non abbiamo la pretesa di arrivare alle stelle con i social: per noi l’importante è avere sempre qualcosa da fare. A trent’anni si può ancora ridere e divertirsi e io, da un anno a questa parte, sto scoprendo modi di farlo che mai avrei immaginato. Attualmente Seba sta scrivendo un libro in cui io non voglio intervenire se non per un piccolo pezzo comico, in quanto certi nostri aneddoti sono davvero spassosi. Ma anch’io, prima o poi, dovrò scrivere un libro su di lui: il divertimento a trent’anni con un disabile. Qualcuno può dirmi: “Ma non ha più diciott’anni”. È vero, ma sto provando un divertimento genuino e totalmente diverso. Che non può avere età».
Un progetto, però, potresti svelarlo?
«Lui non lo sa, ma voglio anticiparlo a te affinché se lo ritrovi scritto: sto pensando di portarlo allo stadio nella curva del Milan, la squadra di cui è tifoso, per raccontargli la partita. Piccolo particolare: io sono interista».
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