IL SINDACATO COME BANDIERA
SABRINA ROSSI
(Cerignola, 11 agosto 1892 – Lecco, 3 novembre 1957)
Un punto fermo nella storia del lavoro. Giuseppe Di Vittorio è stato fra gli esponenti più autorevoli del sindacato italiano del secondo dopoguerra, e pur non avendo origini operaie ma contadine, è stato certamente il maggiore e più seguito, dirigente sindacale italiano del XX secolo.
Rimasto orfano quando non aveva ancora otto anni, “Peppino”, come veniva affettuosamente chiamato, conobbe subito la durezza dello sfruttamento.
“Ogni sera – raccontava -la mamma attendeva il mio ritorno seduta alla soglia di casa: quando mi vedeva giungere accigliato capiva che il giorno seguente non avrei guadagnato il salario e allora rientrava a piangere”.
A 12 anni era membro del sindacato dei contadini; a 13 era nel direttivo della Lega; a 16 fondava il Circolo giovanile socialista di Cerignola. Era il 1910 quando veniva eletto segretario della Federazione giovanile del PSI pugliese.
Deputato nel 1921, dopo un incontro con Gramsci e Togliatti, aderì al Partito Comunista.
Dal 1928 è a Parigi dove si dedica al rafforzamento del movimento antifascista tra gli emigrati italiani poi va in Spagna a combattere Francisco Franco e alla fine della guerra rientra in Francia dove viene arrestato dai nazisti e consegnato all’Italia che lo imprigiona a Ventotene. Liberato nell’agosto 1943 partecipa alla lotta di Liberazione.
Firmatario del Patto di unità sindacale di Roma del 1944 diviene segretario generale della Cgil unitaria e poi, dopo la scissione, della Cgil fino alla sua morte.
Nel 1946 deputato all’Assemblea Costituente, la sua fama e il prestigio ebbero largo seguito tra la classe operaia ed il movimento sindacale tanto che, nel 1953, fu eletto presidente della Federazione Sindacale Mondiale.
Fu uno dei primi marxisti a intuire la pericolosità del regime stalinista sovietico tanto che nel 1956 suscitò scalpore la sua presa di posizione, difforme da quella ufficiale del PCI, contro l’intervento dell’esercito sovietico per reprimere la rivolta ungherese.
L’anno successivo a Lecco poco dopo un incontro sindacale un infarto gli fu fatale.
Il viaggio della salma fino a Roma, dove venne sepolto al Verano, fu indimenticabile.
A ogni stazione ferroviaria il treno era costretto a fermarsi per la folla che si radunava per un ultimo saluto.
A pugno chiuso.
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