Un grande progetto: creare a Quiliano una realtà di valore regionale per valorizzare al massimo giovani e società. Da quest’anno una nuova avventura per l’ex bomber giramondo che si racconta e svela i piani per il futuro.
BORIS CARTA
Antonio Marotta – solamente omonimo del più celebre Beppe, amministratore delegato dell’Inter – è stato uno dei più prolifici attaccanti delle serie minori di inizio millennio. Nato a Bergamo il 14 giugno 1979, ha conosciuto l’apice della carriera nella stagione 1998-99 quando, con la maglia della Cremonese, è sceso in campo per cinque volte nel campionato di Serie B. Ma la svolta vera, non soltanto della carriera ma anche della vita, sarebbe arrivata nel 2003 con il passaggio al Vado, allora impegnato in Serie D. Da allora il Toro – come è stato ribattezzato dai tifosi per via della grande potenza atletica – non si è più allontanato dalla Liguria, che ha scelto come terra adottiva. Una data su tutte: sabato 16 aprile 2016. Quel giorno è in programma Bragno-Arenzano, ultima partita del girone A del campionato di Promozione, che vede Marotta difendere i colori biancoverdi della compagine valbormidese. Prima del fischio d’inizio, i compagni di squadra, la società e la famiglia gli consegnano una targa celebrativa: «Oltre 150 goal. Molto più di un compagno. Molto più di un capitano. Grazie TORO». E come nella più bella delle favole, quella giornata indimenticabile conosce il lieto fine al 91’, quando proprio il Toro sigla la rete del definitivo 2-2, degno coronamento di una carriera che lo ha visto calcare, eccezion fatta per la Serie A, i campi di tutte le categorie, dalla Serie B alla Promozione.
UN PROGETTO DI PRESTIGIO A LIVELLO REGIONALE
Oggi Antonio Marotta è il direttore sportivo dell’U.S.D. Quiliano&Valleggia, con la quale, alla soglia dei quarant’anni, ha disputato i suoi ultimi scampoli sul rettangolo verde in Prima Categoria prima di abbracciare l’ambizioso progetto stilato dal presidente Giorgio Landucci per una società con tutte le carte in regola per assurgere a realtà di rilievo nel panorama calcistico regionale in quanto a strutture, organizzazione e potenzialità. Missione difficile, certo, ma non impossibile. Tuttavia la felice realizzazione di qualsiasi progetto non può prescindere da determinati fattori. Quali? A questo punto lasciamo che a dircelo sia lui, non senza un necessario flashback sul suo percorso agonistico. «Ritengo sia questione di bravura ma anche di fortuna, trovarsi nel momento giusto al posto giusto. E lo dico anche per esperienza personale. Ho fatto parte del settore giovanile dell’Atalanta dai “Pulcini” fino alla “Primavera”, dopodiché sono passato in prestito all’Alzano Virescit, con cui ho disputato due campionati di Serie C1. Dopo una stagione in Serie B con la Cremonese sono tornato ad Alzano firmando un contratto pluriennale. In seguito sono stato girato in prestito a diverse squadre professionistiche – Chieti, Sambenedettese, Pontedera, Palazzolo, Montichiari solo per citarne alcune – prima di scendere di categoria con Vado e Sestri Levante in Serie D, Loanesi San Francesco in Eccellenza, Carcarese e Bragno in Promozione. Dopo aver girato in lungo e in largo l’Italia ho deciso di stabilirmi in Liguria: mi piace stare qui e sono convinto che questa sia una regione che dà tantissimo. E avendo avuto l’occasione di giocare mi è stato, di conseguenza, più facile ambientarmi».
IL TIFO PIÙ CALDO? BENVENUTI AL SUD
Quali sono state, tra le piazze calcistiche in cui hai giocato, quelle che ti hanno maggiormente colpito dal punto di vista della passione dei tifosi?
«Più si va verso il sud è più l’attaccamento è spasmodico. Ti cito alcuni episodi di quando ho giocato a Chieti: l’infuocato derby con il Teramo e una trasferta a Foggia dalla quale eravamo tornati a casa a mezzanotte perché non ci lasciavano uscire dallo stadio. Sicuramente anche al nord esistono piazze molto calde con un seguito numeroso di tifosi, ma al sud l’atmosfera è diversa: fin dalla Terza Categoria l’attaccamento alle squadre dei propri paesi è forte e caloroso».
IL MITO? L’ORGANIZZAZIONE DELL’ATALANTA
Parlando invece delle società in cui hai militato, quali sono quelle che ti hanno più favorevolmente impressionato sotto il profilo dell’organizzazione?
«Trattandosi di società professionistiche, erano tutte supermegaorganizzate perché così devono essere per praticare il professionismo. Ti posso citare l’Atalanta, la Cremonese, il Chieti… a parte la storia, tutte erano dotate di strutture societarie ad altissimi livelli: dai campi agli ostelli, erano attrezzate in tutto e per tutto per riuscire a portare sul rettangolo verde undici giocatori in grado di dare ciò che loro veniva richiesto. Perché, comunque, tutto si riduce al terreno di gioco: si può lavorare benissimo al di fuori del campo, ma senza un ambiente sano, dove i giocatori vogliono stare, e un attaccamento alla maglia anche da parte dei tifosi e dell’ambiente circostante, è difficile fare risultati. Nel periodo in cui sono stato all’Atalanta ho avuto la fortuna, e come me tanti altri, di avere come direttore del settore giovanile Mino Favini, uno dei più grandi talent scouts italiani di sempre: sotto la sua guida il settore giovanile dell’Atalanta è diventato, oltre che uno dei più floridi dell’intera Europa, uno di quelli a fornire il maggior numero di giocatori alla prima squadra. E la sua scomparsa mi ha rattristato molto».
IL SEGRETO PER I GIOVANI? UN AMBIENTE SANO
Soprattutto, un aspetto che sta molto a cuore alle società professionistiche è quello di seguire i giovani del vivaio non soltanto dal punto di vista calcistico ma anche da quello personale, in funzione della loro vita futura…
«Assolutamente sì. Seguono in tutto e per tutto quello che i giovani devono fare cercando di farli crescere soprattutto a livello umano e interpersonale, aspetti che spesso si perdono. Giocare soltanto per vincere non porta mai a niente di buono, mentre giocare per cercare sempre di migliorarsi alla lunga paga. A mio avviso, l’ideale di ogni settore giovanile è far crescere ogni ragazzo in un ambiente sano e competente, in cui lui si sente a casa e dove i genitori lo portano volentieri perché vedono che lavora in maniera corretta, senza estremismi. E a Quiliano la nostra politica riguardo il settore giovanile è proprio quella di far crescere i ragazzi sotto tutti i punti di vista: fisico, mentale e di aggregazione».
LA SQUADRA? NON È SOLO QUELLA CHE VA IN CAMPO
Per concludere: come è stato per te il passaggio al nuovo incarico dopo tanti anni trascorsi sul campo? Ti senti cioè ancora un po’ giocatore o sei ormai pienamente calato nella veste dirigenziale?
«Il desiderio di stare sul campo è passato quando ho visto che ormai non reggevo più fisicamente e ho smesso di mia spontanea volontà prima che fosse qualcun altro a dirmelo, anche perché bisogna capire quando è l’ora. Durante il lockdown, stando a casa e pensando moltissimo, ho fatto questa proposta al presidente: ne abbiamo parlato, discusso e infine abbiamo sposato il progetto. Che ora spero vivamente di portare a termine nel miglior modo possibile, ovvero facendo crescere il settore giovanile e la prima squadra. È indubbiamente un progetto ambizioso, al quale stiamo dedicando anima e cuore: siamo tutti i giorni al campo, lavoriamo, ci contattiamo cento volte al giorno. Presidente, vice presidente, direttore sportivo, direttore generale, segretario: siamo tutti nella direzione in cui vogliamo andare. In due parole, facciamo squadra. E a livello dirigenziale è importante come lo è per chi va in campo».
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