Le fotografie non raccontano mai abbastanza, qualche volta imbrogliano, altre distraggono. Solo le mani di chi ha lavorato duro sono le uniche che infrangono la reticenza del tempo e delle convenzioni. Che mani ha un uomo che ha lavorato in miniera dall’età di 15 anni, che a 14 faceva il muratore 10 ore al giorno, che finita la guerra e continuata la fame, ha lasciato Cadibona ed è salito dietro ai reclutatori belgi per le miniere fino alla bonifica della Normandia per rimuovere i relitti del D-Day? Le sue mani, oggi, ogni tanto cercano di rimuovere dalla fronte anche i pensieri, ma il gesto s’interrompe. Forse le dita non sono agili o i ricordi troppo pesanti.
Claudia Avogadro che ci ha raccontato storie e nostalgie di Quiliano, Cadibona e Capanne, paziente tessitrice di narrazioni sperdute, questa volta ha intervistato l’ultimo sopravvissuto della miniera di Cadibona, Umberto Avogadro. Lo ha fatto con grande affetto, pudore e cura. Qui ci racconta cose immense ripescate fra ricordi e velature con la tenerezza ai cui induce la continuità famigliare, ma con il rispetto e la devozione che sono dovuti a grandi persone testimoni di storie irripetibili e rispettabili.
CLAUDIA AVOGADRO
Una vita migliore.
Raccogliere le testimonianze delle persone non è facile, più facile è sfogliare registri, leggere atti:
occorrono pazienza, discernimento e qual pizzico di tempo che solo chi racconta ti sa dare.
Non è stato facile raccogliere la testimonianza dello zio Umberto sulla miniera di Cadibona.
Di questa “avventura” in casa si è sempre parlato specie se qualcuno andava “avanti”, così la vita che scorre sempre velocemente ha tracciato un record, Umberto Avogadro è l’ultimo lavoratore della miniera di Cadibona ancora in vita.
Classe 1931 , nasce in un ridente paesino sulla montagna bergamasca, Serina, ora accogliente e rinomata, località turistica, allora…….
DIECI ORE DI LAVORO, I SOLDI ALLA MAMMA
“La vita non è facile, “ “la prima busta paga, l’ho avuta nel 1945, portavo la malta, dentro dei secchi per la costruzione di una casa, dieci ore di lavoro”. Il papà grande invalido della Prima Guerra Mondiale, due sorelle e due fratelli di cui uno di cinque anni più piccolo, la pigione (l’affitto) da pagare, fanno si che i pochi soldini guadagnati aiutino la famiglia nell’economica domestica, “la busta la portavo alla mamma” .
Lo zio scuote la testa, come ha scacciare i momenti dolorosi e tristi, le fatiche, “ma fin qui sono arrivato, i prossimi sono ottantanove” .
QUELLA MINESTRA DI GUERRA NELLA LATTA DEL POMODORO
La strada da Serina a Cadibona è lunga, Romano il più piccolo raccontava sempre la Milano bombardata, “la stazione era tutta senza vetri, una signora disse alla mamma , che la Croce Rossa distribuiva la minestra, fuori, vicino alla stazione, mangiammo minestra di riso, in una latta di pomodoro, da cinque chili, com’ era buona” , lo zio sorride ma i suoi occhi sono tristi e pieni di lacrime, “ venimmo a Cadibona perché eravamo amici con la famiglia Gherardi, che era già qui, ci dissero che potevano trovare lavoro, allora c’erano tanti Bergamaschi e Bresciani che lavoravamo in miniera”.
La miniera di lignite che tanto oggi affascina, ma che era miniera di guerra, miniera di salvezza, miniera di morte, ma anche miniera di benessere. “Una miniera è sempre una miniera, quanti ci sono morti? E quanti ci muoiono? Sei sempre sotto terra, da vivo” ci aiuta in questo passaggio la foto scattata in occasione della Santa Barbara, patrona dei minatori, il 4 dicembre 1946. Si riconoscono i volti, ma i nomi? “Ecco questo sono io” esclama lo zio, “ qui tuo papà vicino all’Andreuccio” , le donne che erano alla cernita del carbone, i miniatori finiti, quelli dell’avanzamento, esperti , attenti vigili sul lavoro, avevamo in mano la loro vita e la vita di chi lavorava loro accanto, “Avanzavano con il martello pneumatico, picco, pala, accetta per sistemare i legni, sopra di loro tutta la montagna, bastava un attimo … che vita” .
MINATORE A 15 ANNI
Vivevamo agli Abrani, mezz’ora di strada, gambe di 15 anni e spirito di sopravvivenza.
“ Il primo lavoro, sono andato alla teleferica, portava il carbone, dal piazzale alla collina per poi caricarlo sui camion, e via …”
La paga era poca, e per avere qualcosa in più, lo zio accetta di entrare nella pancia della montagna.
“Paura? e cosa facevo?, papà prendeva la pensione di invalido, ma non bastava, la mamma, due sorelle di cui una malata, tuo padre piccolo, l’affitto, il mangiare…. lascia stare …lascia stare”.
Lo zio sente ancora tutta la responsabilità che lo investì a 15 anni , in questi momenti il silenzio è pesante come un macigno, non si riesce ad andare avanti nel racconto.
RAGAZZI E DONNE PER MANDARE AVANTI UNA MINIERA DI GUERRA
“Nella miniera, spingevo i carelli, vuoti all’andata pieni al ritorno, sul piazzale le donne alla cernita, si cercava di non portare su terra, ma carbone, per cui quando si impalava vi era già una scelta… per non fare fatica inutile, la terra si ammucchiava lungo il bordo oppure in qualche buco non più utilizzato, gli uomini esperti sapevano il fatto loro“.
All’avanzamento lavoravano sette ore, già una conquista, due turni di sette ore, poi a casa nello “scitto”, in campagna a lavorare la terra, potare la vigna, seminare. I cadibonesi fortunati erano quelli che lavoravano in miniera, e avevano un poco di terra, che poi sempre fatica era.
“Se vivevano in famiglia lo stipendio si aggiungeva alla rendita della terra specie se era di proprietà e non dovevano spartirla con il padrone” . Ricorda lo zio.
Lo zio guarda fuori dalla finestra, era tutto una vigna, mica spine come ora, le donne lavoravano la terra come gli uomini zappavano, e andavano ad Altare, a piedi, con un cestino in testa a vendere la frutta, le primizie, ma mica con le mani in mano ma facendo la calza per non perdere tempo, rifornivano qualche negozio, ma le più avevano le loro “casanne” cioè famiglie che compravano loro direttamente.
“QUANDO GIUNTINI CI DIEDE IL BACCALÀ A PREZZO DI COSTO”
“Sono stato diciassette, no diciotto mesi in miniera, assunto regolarmente, stipendiato, il pranzo di mezzogiorno, minestrone o pasta asciutta, verdura qualche uova o frittata, spezzatino di carne, sempre in tempo di guerra si era…” lo zio sorride “ Un giorno, non so come, Giuntini che era il concessionario della Miniera per lo sfruttamento del sottosuolo, il padrone in pratica, comprò del baccalà, a prezzo di costo tutti ne ebbero un pezzo. Arrivai a casa tenendo per la coda la mia parte di baccalà, ma lungo la strada ne avevo già staccato dei pezzettini e li avevo mangiati così salati. Che festa facemmo”.
E I BELGI VENNERO A CADIBONA A RECLUTARE MINATORI
La miniera chiuse, “Vennero i reclutatori dal Belgio, cercavano Minatori, quelli esperti dell’avanzamento, dovevano sostituire i prigionieri tedeschi, che durante la guerra lavorarono nelle loro miniere e ora dovevano liberare, partirono i bresciani, i bergamaschi, tanto essere qui o là. I cadibonesi? non ricordo, ma erano più legati alla terra, alla famiglia, speravano di entrare in qualche fabbrica”. Umberto rimase alcuni mesi allo smaltimento. “Si recuperava tutto, specie il ferro, anche i chiodi, il legname buono, il legname mezzo marcio veniva dato per scaldarsi, per bruciare nelle case, tutto era utile”.
DA CADIBONA AL ROTTAMI DEL D-DAY E POI IN FORNICOKE
Inevitabilmente la miniera senza sostegni collassava su se stessa, “alcune parti, quelle lontane e quelle ritenute non redditizie erano già state abbandonate, le altre crollarono”.
La vita continua …
Lo zio trovò lavoro in Demolizione a Vado Ligure , partì anche per la Normandia allo smaltimento dei mezzi di sbarco del D-Day , poi in Fornicoke sino alla pensione, ma questa è un’altra storia.
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