Cosa vuol dire piantare un albero? E che senso ha? Molti artisti hanno preso un impegno personale in questo senso. Pubblichiamo una riflessione di Stefano Rolli. Di Stefano Rolli il grande pubblico conosce la vignetta che ogni giorno ci fa riflettere e sorridere in prima pagina sul Il Secolo XIX, oppure le mostre che pigramente ogni tanto concede in giro per la Liguria. Gli amici beneficiano dello spirito pungente anche nella parlata, ma conoscono la sua passione per la ghironda che dispensa avaramente e con cui spesso si fonde in un’enfasi di emozioni. Ma Stefano Rolli è anche narratore puntuale, un po’ melanconico, però attento e scrupoloso. Vive in campagna e del verde, di boschi e colture ama raccontare la poesia antica e le suggestioni. Sovente anche i disagi di un sistema che lentamente collassa e qualche volta muore. Con questo è il secondo scritto con cui ci onora e in cui parla di natura, di ambiente, di suggestioni e poesia. Sperando che questi articoli (già usciti sulla carta stampata) aiutino a pensare e a rispettare l’ambiente li proponiamo ai lettori di Quilianonline perché le cose belle vanno sottolineate e, se possibile, quando è possibile, rilette.
STEFANO ROLLI
Da undici anni abito in campagna e ogni volta che posso pianto un albero. Niente di originale, sia chiaro. Quando sono arrivato qui in collina avevo già letto L’homme qui plantait des arbres, il piccolo capolavoro in cui Jean Giono immagina un montanaro che in totale solitudine e silenzio, sconosciuto al mondo, per anni e anni raccoglie, seleziona e semina ghiande facendo crescere migliaia e migliaia di alberi nelle vallate aride e spazzate dal vento dell’Alta Provenza.
Una storia di fantasia, ma non mancano nella realtà esempi illustri : Ian Anderson, leader dello storico gruppo rock dei Jethro Tull, nel 2014 aveva già piantumato 30mila tra querce e frassini e nel 2015 erano già quattro milioni le piante con le quali il grande fotografo Sebastião Salgado e la moglie Lélia avevano ridato vita a una porzione di 17 mila ettari della Mata Atlantica ormai deforestata, in Brasile. E poi casi meno noti : qualche anno fa, a Parma, padre e figlio hanno scelto di non vendere dieci ettari di lucroso terreno edificabile e di piantarvi undicimila alberi.
Gli alberi li amavo già prima, sin da bambino. Non che sia un esperto, anzi. Non distinguo ramo da foglia e non pretendo di conoscere varietà e caratteristiche, a meno che non debba occuparmene di persona. Sennò mi basta vederli prosperare, sentire il vento che li scuote e che se chiudi gli occhi ha il suono delle onde che si infrangono su una spiaggia di ciottoli. Così, se posso ne pianto qualcuno. Su ognuno dei miei gatti morti anzitempo cresce un ulivo. Poi certo ci sono gli alberi da frutto, ma mi piacciono anche quelli che apparentemente non servono a nulla, l’ultimo è stato un tiglio. Non ho molto spazio attorno a casa, ma ho un bosco non vi dico dove. Piccolo, abbandonato e un po’ impoverito e lì c’è posto per altre piante.
Una mattina del novembre scorso qualcuno mi ha telefonato per dirmi che era morta una cara amica che viveva su una collina non distante dalla mia. Sono subito corso da lei, non solo per il dispiacere della perdita, ma anche per dovere di giornalista perché la nostra amica era famosa. Era la quercia monumentale di Gòsita, la roverella pluricentenaria di Ne, la Rue come si dice qui in Val Graveglia. Aveva quattro-cinquecento anni, qualcuno dice seicento, le sue fronde svettavano oltre i venti metri. Scusate se ne parlo come di una persona, ma persona in latino significa maschera, immagine, e quell’albero era il volto stesso del grande dio Pan, il volto della Natura.
Arrivato sul poggio che aveva ombreggiato per secoli, non c’era ancora nessuno. Così mi sono seduto accanto a lei, coricata come un gigante sconfitto, e assai poco professionalmente mi è venuto da piangere. Poi – poco prima che arrivassero Ivo Chioino, il proprietario del terreno che con il figlio Remo qui coglie il dono prezioso delle api, e Giuseppe Garibaldi, che sotto la Rue è nato e vissuto – mi è venuto spontaneo riempirmi una tasca con qualcuna delle ghiande che il grande albero aveva sparso al suolo prima di cedere agli anni e al vento. Nell’altra tasca ho messo un po’ di terra. Quando abbiamo iniziato l’intervista l’ho detto a Giuseppe, come per chiedere permesso. Lui ha annuito per dire «fai bene » e mi ha mostrato il pendio dove altre giovani querce crescevano già da qualche anno. Sono tornato al lavoro per scrivere, con le ghiande ancora in tasca. La mattina dopo ho preparato qualche vasetto, ci ho messo i frutti e li ho protetti con foglie e rametti. Ho portato tutto in un angolo del mio pezzo di terra e non me ne sono occupato più, solo un’occhiata ogni tanto.
Quando la primavera avara di quest’anno è finalmente arrivata ho cominciato a preparare un po’ di orto. E così li ho visti. I figli della Rue erano nati. Una dozzina di fragili promesse di fusti, nelle cui vene scorre la linfa del gigante caduto. Ero contento, non ho resistito, ho fatto una foto e – lo ammetto – l’ho condivisa su Facebook. E qui ho visto che la mia contentezza era anche quella di altri e anche Ivo Chioino se ne è accorto e così mi ha raccontato che nel 2016 gli studenti delle medie di Carasco, con la professoressa Bianca Citi, erano venuti da lui a raccogliere qualche ghianda della Rue e che le avevano seminate per la Festa degli alberi. E l’altro giorno lo hanno chiamato perché le piante sono nate e cresciute e in autunno potranno essere messe a dimora. Molte di loro faranno compagnia ai fratelli lì a Gòsita, altre verranno donate a chi vorrà prenderne cura. Chioino immagina di coinvolgere l’amministrazione comunale e la Pro loco per organizzare in occasione della prossima Festa degli alberi una cerimonia per consegnare le molte piantine ancora disponibili.
Viviamo in una delle regioni più boscose d’Italia e forse d’Europa. Questo primato, che per quanto mi riguarda trovo positivo, è anche dovuto all’abbandono delle campagne. Perdonatemi, ma penso spesso che sia meglio così. Nel passato dal bosco si prendeva, ma al bosco si dava. Credete che tutti quei castagni siano nati lì da soli ? Oggi però quando si parla di bosco, e se ne parla quasi sempre come di una risorsa economica, si pensa soprattutto a tagliare. C’è un decreto della precedente legislatura (il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali), non modificato nell’attuale, che ha suscitato forti perplessità e decise prese di posizione nell’ambiente accademico e scientifico.
Sento troppe motoseghe ruggire e vedo i pendii franare dove si è tagliato senza lasciare una pianta e senza permettere al ceduo di rigenerarsi.
I figli della Rue, insieme ad altri già adolescenti, li lascerò in posti lontani e impervi del bosco, dove chi taglia non ha voglia di andare. Nel mio terreno di fronte a casa potrebbero incontrare dopo la mia morte qualcuno che voglia abbatterli. Uno però voglio mettercelo. Se crescerà potrà vedere da lì il campanile di Gòsita e siccome il sole sbuca da quella collina forse le sue fronde si tenderanno come in un abbraccio verso il poggio dove viveva sua madre.
(Il Secolo XIX del 15 giugno 2019)
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