A Cadibona ci sono storie che una volta si raccontavano davanti al fuoco, d’inverno, oppure d’estate la sera…
MARIO MUDA
Qualche volta era un refolo di vento, più sovente un brivido lungo la schiena per emozioni che era meglio non cercare oltre il cono di luce. In genere erano chiacchiere per far quadrare i conti del numero dei parenti, di quelli che si ricordavano ancora. Per allacciare la storia di uno portato via a spalla a quella di uno che, invece, se n’era andato con le proprie gambe.
Così in un rosario di vite sparite e dimenticate, una sera a Capanne, dove l’autostrada fa da sfondo e ancora adesso, ai primi caldi è un sipario di lucciole, mentre d’inverno le discese sono trappole di ghiaccio, spunta il racconto di un morto giovane, non aveva vent’anni ancora, diciannove per l’esattezza, morto male. Non che ci sia un modo bello di morire, soprattutto a quell’età, ma certo che morire bruciato in una fabbrica di esplosivi è uno dei modi peggior per andarsene.
Stupisce che la rievocazione di quella storia riguardi Ferrania che è a una manciata di tornanti da qui e che racconti di un ragazzo nato quassù a Cadibona, uno che assieme altri 7 giovani, la sera che il fuoco gli prese la vita, lo scoppio lo udirono anche a casa, e nel buio sicuramente videro le fiamme e sentirono l’esplosione. Tanto che non furono presentimenti, ma subito certezze.
Le donne si sa, agugliano pietà. Cosa faremmo senza la tenerezza che le donne hanno anche verso le ombre, e se pure ne parlano sottovoce non dimenticano, senza intaccare la fragilità del ricordo. Tenera era la voce di sua madre, quando parlava del fratello bruciato vivo a Ferrania, tenera era lei Olga Briano, che ancora abita alle Capanne, le finestre verso la valle, parlandone con Claudia magari sottovoce, quasi un accenno, per lasciare, a quello zio mai conosciuto e solo sussurrato, almeno nella morte, la pace che non aveva avuto in vita.
ASCOLTARE E CERCARE, LA VOCAZIONE DI CLAUDIA
Ma le morti rubate e soprattutto a quell’età, non si possono lasciare nelle paludi della dimenticanza perché allora diventano insulto, significano davvero la dannazione. Così in una sera o un giorno, inverno o estate, poco conta, si srotola il racconto di quel ragazzo che si partiva tutte la mattine da Capanne per andare a Ferrania, una fabbrica che prima di imprigionare la luce con le sue pellicole, faceva esplodere le cose. Claudia Avogadro vive a Imperia, ma è di Cadibona. Alle Capanne, per vocazione, nostalgia e amicizie, è di casa. Ama la Storia, ma si appassiona soprattutto alle storie di gente perduta e dimenticata e si batte, scavando con le unghie della costanza fra libri, siti internet, memorie, cataloghi e brogliacci, archivi. Bussa alla coscienza della gente, perché un nome non venga dimenticato, una giustizia umana sulla memoria, venga onorata. Segue una circostanza, ne accosta due, tira le linee virtuose di una tela mulino di sapere che sempre ha bisogno di confronti, verifiche e riscontri. E le vicende prendono forma, il dolore antico ha una spiegazione, i silenzi adesso hanno simmetrie, rispondenze, conferme.
“Dobbiamo anche comprendere che queste storie dolorose non venivano “raccontate” sino in fondo – spiega Claudia Avogadro -. Faccio un esempio: quando elenco i nati vivi e morti di una ricerca genealogica, molte famiglie non sanno nulla dei morti, specie se non avevano superato l’anno di vita. Morivano, come scrive Nuto Revelli, si piangeva un po’, e poi si passava avanti”.
Ma Claudia Avogadro non passa avanti. Le bastano un nome e una storia perché lei si metta a cercare.
SANTINO, UNA VITA DUE STORIE
La storia nasce qui in questa costola di Cadibona. Due volte. La prima quando Santino Scarone cresciuto alle Capanne, un borgo che adesso poggia al sole, in mezzo al verde e ai fiori, ma una volta era l’anticamera del lazzaretto, un borgo erto, solo fatica e dolore, e inizia a lavorare alla Ferrania in un reparto dove fabbricano esplosivi.
Sembra un lavoro pericoloso, lo è, lo sarà, ma in quel momento il fronte della guerra è lontano e la paura gioca a rimpiattino con il dolore che qui è palpabile poiché la famiglia ha già dato alla “patria”, Andrea il fratello maggiore, caduto nel giugno del 1916 e sepolto poi a Caporetto, nel sacrario. Quindi saperlo lontano dai rischi costanti dei bombardamenti, degli assalti alla baionetta, delle scariche di fucileria, delle bombe, rasserena la famiglia che lo spera lontano dalla guerra e con uno stipendio costante che qui è diventato fondamentale. Ma quel 22 novembre del 1917 il reparto dove lavora Santino, esplode. I soccorsi, il dolore, la corsa disperata, con gli altri ustionati, all’Ospedale Militare di Riserva di Savona. Tutto inutile. Lui e gli altri sette giovani coinvolti nell’esplosione verranno sepolti a spese dalla SIPE nel cimitero di Zinola. Non è il Ministero della Guerra, né lo Stato. Ma la ditta. È un incidente sul lavoro. Quanto vale un operaio? Il prezzo di una sepoltura. La prima vita di Santino Scarone finisce qui. Storie fra altre storie .
La seconda vita di Santino Scarone, invece nasce dal racconto bisbigliato di quello zio che Olga Briano fa a Claudia Avogadro che s’intriga e, per realizzare un nuovo inizio, incomincia dalla morte. Va a bussare alla canonica e così scopre, nell’atto parrocchiale, che il sacerdote aveva registrato la scomparsa di un giovane del suo gregge annotando: “è morto vittima di incendio del polverificio di Ferrania”. Fino ad allora si ipotizzava un incidente, di un incendio quasi sicuramente, non ci ricordava delle esibizioni belliche dello stabilimento di Ferrania.
FERRANIA, PRIMA DEI FILM, LE BOMBE
“Da allora mi occupo di SIPE – ricorda Claudia Avogadro- da quando la nipote di Santino Scarone mi raccontò la sua tragica fine. Contatto il Ferrania Film Museum e nel confermarmi la storia della produzione bellica, i responsabili ammettono di non conoscere quel preciso episodio”.
Allora poiché non ci sono tombe a Cadibona, Claudia Avogadro inizia a fare ricerche sia al cimitero di Zinola sia in Comune a Savona dove, grazie alla insperata e solerte collaborazione di funzionari dell’ufficio sepolture, trova riscontro di 8 inumazioni attorno alla data dello scoppio e per tutte c’è il certificato di morte redatto dal dottor Bruno medico dell’Ospedale Militare di Riserva di Savona, con un’unica motivazione: “ustioni e paralisi cardiaca”. Se bruci per intero il cuore non regge. Il dolore ti stronca.
“Da quel giorno – ricorda Claudia Avogadro- non ho mai smesso di cercare: ho consultato il consultabile, dai giornali locali, agli archivi alle biblioteche. Ho voluto che ai ragazzi fosse restituita la dignità del ricordo”.
Che nell’araldica della Ferrania ci fossero le bombe si sapeva. Anche quelli della mia generazione che oramai sono in là negli anni, hanno avuto la ventura di provare la bomba a mano denominata appunto SIPE. Usata nella Prima Guerra Mondiale arrivò, senza quasi mai modifiche, anche alla Seconda e, in certe occasioni, appunto, anche al dopoguerra per le esercitazioni. Poi uno, oltre a chiedersi perché sbagliamo a fare guerre, non ha certo bisogno di chiedersi perché le perdiamo. Dunque, la vocazione agli esplosivi riguarda tutta la Valbormida che con questa predisposizione, col passare del tempo, eleggerà Cengio come proprio punto di riferimento consacrandola ad un ruolo di crogiolo di veleni. O morali come nel caso degli esplosivi o reali come quelli che poi ne caratterizzarono successivamente la produzione.
IN VALBORMIDA CHIMICA ED ESPLOSIVI
In Valbormida, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, l’industria chimica arriverà a contare 7.000 addetti. Si inizia nel 1882 quando il “Dinamitificio Barbieri” di Cengio si attiva per la produzione di dinamite fino al 1906 quando viene acquistato dalla SIPE, la Società Italiana Prodotti Esplodenti, fondata a Milano nel 1891, che garantirà gli esplosivi utilizzati dall’esercito italiano durante la guerra coloniale in Libia e nella Prima Guerra Mondiale. La SIPE diventa una delle aziende più importanti del settore arrivando a produrre fino a 100 tonnellate di esplosivi al giorno. Nel 1915 la SIPE, per soddisfare le crescenti richieste, apre un altro stabilimento a Ferrania, acquistando il terreno della tenuta dei marchesi Durazzo-De Mari, per la produzione di polvere B, una miscela esplosiva utilizzata dall’esercito russo nei proiettili dei cannoni.
Lo stabilimento di Cengio, che arriva a occupare fino a 5.000 addetti, produce tritolo fino al 1925 quando viene rilevato da Italgas e successivamente integrato nella “Società di Coloranti Italica”, ovvero l’ACNA, destinata alla produzione di coloranti e vernici. La produzione di materiale esplosivo procede comunque anche durante la guerra d’Abissinia (1935).
Alla fine della Prima Guerra Mondiale un lungo e articolato cambiamento porterà la ex SIPE ad una riconversione industriale fino ad essere conosciuta da tutti come Film, Ferrania, 3M; leader a lungo nel settore delle pellicole fotografiche, cinematografiche e radiografiche.
UNA SCIA DI SANGUE PER SABOTAGGI E INCIDENTI
La ricerca di Claudia Avogadro la porta a conoscere situazioni e personaggi in ogni parte. La storia di Santino Scarone finisce per essere al centro di un articolato dossier del sito specializzato http://www.pietrigrandeguerra.it/ che non solo denuncia e ricorda l’accaduto di Ferrania, ma rilancia su episodi simili fra colposi o dolosi che colpirono anche la fabbrica di Cengio.
“Durante la Prima Guerra Mondiale – ricorda Claudia Avogadro -, sia per esplosioni accidentali o addirittura a seguito di sabotaggi, morirono molti uomini nelle fabbriche italiane requisite per lo sforzo bellico. La SIPE di Ferrania e Cengio fu una di queste: fino ad ora abbiamo scoperto 12 persone morte, fra militari e operai militarizzati. Le ricerche sono ancora in corso, poiché vi fu più di un episodio nel corso della guerra e risulta tuttora difficoltoso reperire informazioni su questi avvenimenti. Se qualcuno- ribadisce con forza- fosse a conoscenza di altri episodi simili in cui morirono militari e civili, me lo segnali: la mia indagine continua senza sosta. Anche se la ricerca oggi si ferma, magari domani fa un piccolo passo avanti. Io batto tutte le strade, cerco di far conoscere la storia a più persone possibili, anche tramite i social e i gruppi fb, basta il ricordo di un parente, una narrazione dimenticata per aprire nuovi scenari, acquisire altri dati”.
PER NON DIMENTICARE l NOMI DI QUEL 22 NOVEMBRE 1917
All’Ospedale Militare di Riserva di Savona, dove oggi c’è il Comando provinciale dei Carabinieri e una volta il complesso scolastico di via Cava nell’area di Monturbano, provenienti dalla SIPE, quel giovedì 22 novembre 1917, oltre al Santino Scarone morirono: Antonio Corsi fu Giuseppe, Giuseppe Quattordio di Pietro, Domenico Sampietro fu Luigi. Il giorno 23 novembre morì Pio Arobbio di Carlo, il giorno 4 dicembre Giovanni Giacobbe di Marco, il giorno 3 gennaio 1918 Pericle Segatori di Luigi. Per tutti nel registro delle sepolture del Comune di Savona, viene riportata la causa accertata dal medico dottor Bruno, “Ustioni di secondo e terzo grado, paralisi cardiaca”. Per loro, come ricordato, la SIPE pagò la sepoltura nel Cimitero di Savona. Nicola Bonfiglio morirà il 22 novembre in Ferrania. Sul suo atto di morte figurano testimoni il medico dottor Pennino e l’ingegnere Giovanni Quartieri di Ferdinando.
“Le loro tombe non ci sono più – ricorda Claudia Avogadro – Santino Scarone è stato traslato nel Cimitero di Cadibona, Quattordio nel suo paese natale, gli altri si sono “persi”. Nessun giornale riporta la notizia, nessun archivio finora consultato, annota la tragedia. Però questi sono “i miei ragazzi”, a cui cerco di dare voce: solo ricercando notizie sulla SIPE Ferrania, forse si riuscirà a ricostruire il tragico evento che spezzò le loro giovani vite. Io non mi fermo”.
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