No, non si tratta dell’omonimo cantautore romano reso celebre da brani come Ammazzate Oh e Se mi lasci non vale, quest’ultima portata al successo da Julio Iglesias: il Luciano Rossi in questione, originario di Gubbio, semmai faceva “cantare” le proprie squadre guidandole dalla panchina come un direttore d’orchestra.
BORIS CARTA
Originario di Gubbio ma ormai ligure d’adozione, il suo nome è indissolubilmente legato alle imprese del grande Quiliano degli anni ‘80 rimasto nella mente e nel cuore di tutti, ma la sua storia calcistica inizia molto prima.
Giusto, Luciano?
«Esatto. Ai tempi in cui frequentavo l’università sono arrivato a giocare fino in Promozione con il Movimento Studentesco Eugubino prima di spostarmi per motivi di lavoro a Torino, dove sono stato assunto alla Fiat. Da Mirafiori sono stato poi trasferito al nuovo stabilimento di Vado Ligure, ragione per cui sono venuto a vivere a Savona. Qui ho conosciuto Giovanni Visca, magazziniere della Fiat allora impegnato nella ricostruzione del Quiliano: è stato lui a portarmi in paese e a farmi conoscere il dottor Fulvio Moirano, presidente della società. Tutto è cominciato così. Pensa che non avevo ancora il patentino: l’ho preso proprio a Quiliano quando, nel 1982, mi sono iscritto al corso per allenare la “Berretti” con Otello Catania (ex giocatore di Cesena, Genoa, Sambenedettese e Forlì). Successivamente, intorno al 1995-96, ho conseguito il patentino da allenatore a tutti gli effetti dopo aver sostenuto il corso tenuto da Romeo Benetti e Renzo Uzzecchini.»
In quali circostanze è maturato il tuo passaggio dal campo alla panchina?
«Per la verità, a seguito del mio arrivo in Liguria avevo giocato per un certo periodo nell’Albisola prima di infortunarmi seriamente al menisco e a un gomito. Una volta ristabilitomi ero ripartito dalla Terza Categoria con la Stella Marina, la squadra degli omonimi bagni marini, finché un giorno, poiché non ce la facevo più a giocare data l’età e i sempre crescenti impegni di lavoro, i giocatori stessi mi hanno chiesto se avessi potuto fare l’allenatore. Da lì ha preso il via la mia carriera di tecnico: ho iniziato vincendo un campionato di Terza Categoria alla guida della Priamar, quindi ho contributo – insieme a Paolo Ferro, Elvio Nervi, Franco Negro e Santo Ferro – alla ricostituzione del Legino e in seguito ho allenato lo Speranza. Tuttavia, lavorando a Mirafiori, mi era difficile conciliare gli impegni professionali con quelli calcistici: venivo a Savona, allenavo e poi ripartivo per Torino, dove arrivavo all’una di notte. Era diventato troppo dispendioso e per questa ragione avevo dovuto interrompere.»
Finché non è arrivata la chiamata del Quiliano. Quale atmosfera hai trovato al momento di “passare il ponte”?
«Quella di un ambiente formidabile sia a livello di società che di squadra, quasi una famiglia. Erano tutti molto uniti, al termine degli allenamenti andavamo tutti a mangiare la pizza: c’erano il presidente, i dirigenti, colui che preparava il tè, l’addetto alla sistemazione del terreno di gioco (in terra battuta e molto ventoso, mica con l’erba come adesso). Un gruppo formidabile con cui ho trascorso un periodo eccezionale: non c’era differenza tra giocatori e allenatore, si giocava sempre per vincere. Siamo partiti dalla Terza Categoria e, con una cavalcata trionfale, siamo arrivati fino alla Prima grazie a giocatori davvero molto bravi: ricordo Vittori, Manca, Saldi, Landucci, il compianto Borreani, Recchia, Marcello, i fratelli Brondo, Camici, Davi, i fratelli Becco. E poi un portiere di grande professionalità come Rapalino, il velocissimo terzino Ratti, il fortissimo centrocampista Bellisio. Direi che attualmente una formazione di questo genere potrebbe militare in Eccellenza.»
Tra le squadre che hanno tentato di sbarrarvi il passo, quali sono state quelle che vi hanno messo maggiormente in difficoltà?
«Le partite più difficili per noi erano quelle da disputarsi in Valbormida contro avversari come il grande Bragno allenato da Ferraro, il Millesimo e specialmente l’Altarese, in quel campo piccolo e infossato dove era davvero difficile sia per noi giocare che per l’arbitro dirigere non essendoci i guardalinee. Anche le gare disputate sul campo del Ferrania – all’epoca allenato da Donato Capece, responsabile del SAPPE-Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria – erano autentiche battaglie, sicuramente Giorgio Landucci le ricorderà ancora adesso: anche lì il terreno di gioco era molto piccolo, il rinvio del portiere finiva quasi nella porta avversaria. Pure nel Ponente ligure le sfide erano agguerrite, formazioni molto forti come Camporosso e Dianese ci hanno dato parecchio filo da torcere Ma noi partivamo sempre con l’idea di conquistare la vittoria: eravamo una delle migliori squadre del nostro girone e, di conseguenza, anche per l’allenatore il compito si facilitava parecchio.»
E il capo di questa grande famiglia era inequivocabilmente il dottor Moirano, colui che ha visto in te il condottiero ideale per puntare ai traguardi più ambiziosi…
«Un uomo straordinario, sempre presente al campo per farci sentire il suo sostegno. Ma non bisogna tralasciare i tifosi: la gente del paese era sempre numerosissima sugli spalti, il tifo era caloroso e l’affiatamento con la squadra grande. Direi che forse, quando eravamo primi in classifica, totalizzavamo anche più spettatori del Vado. In quanto a me, caratterialmente sono sempre stato molto aggressivo e non mi è mai piaciuto perdere. Tant’è vero che in campo ho subito qualche squalifica a causa del mio temperamento. Ogni tanto su Facebook mi trovo a rievocare quei tempi insieme ad alcuni arbitri con i quali mi ero scontrato: ancora oggi mi ricordano quanto fossi rompiscatole, sempre a lamentarmi.»
Un Gattuso ante litteram, mi verrebbe da pensare…
«In un certo senso sì, come giocatore ero molto irruente: giocavo da mediano e mezzala, ero formato fisicamente e pesavo abbastanza. Tieni presente che quando ancora ero a Gubbio, dal 1964 al 1968 circa, si giocava su terreni molto pesanti: i campi di Città di Castello e Sansepolcro, solo per fare qualche esempio, erano un disastro quando pioveva perché diventavano melmosi. E poi i palloni di allora, quelli con le famose cuciture… insomma, un altro mondo. E questo temperamento l’ho conservato anche da allenatore: ero uno che martellava negli allenamenti, mi piaceva che fossero abbastanza duri.»
I giocatori hanno recepito immediatamente questa tua mentalità?
«Devo dire che con i giocatori più anziani ero quasi un compagno di squadra perché non ero molto più anziano di loro. Anche se allora non si parlava molto di tattica i miei giocatori, una volta posizionati in campo, sapevano che cosa dovessero fare perché erano molto forti: a quei tempi le squadre non si conoscevano, non era come in Serie A dove i giocatori si conoscono e si studiano. A mio avviso, il bravo allenatore si vede quando è in panchina: studia l’avversario, fa i cambi che vanno fatti, cambia tattica al momento opportuno. E poiché io, dalla Terza Categoria fino alla Prima, avevo la possibilità di conoscere appieno i miei giocatori solamente nel girone di ritorno, per me l’importante era vedere come giocavano nei primi cinque-dieci minuti di partita per valutare le varianti da apportare.»
E per i giocatori il fatto di doversi meritare il posto di partita in partita poteva costituire un ulteriore stimolo per fare sempre meglio…
«Ne sono convinto, anche se devo dire che mi dispiaceva dover mandare qualcuno in tribuna o in panchina. E in panchina qualche volta esageravo perché, nonostante i tifosi mi incitassero a cambiare, una volta sentiti i loro suggerimenti non cambiavo ugualmente. E non cambiavo neppure quando a chiedermelo era il direttore sportivo Mauro Giusto. Per fortuna le partite andavano a finire bene, altrimenti avrei avuto le mie grane.»
D’altra parte, si sa, l’Italia è il paese dei sessanta milioni di commissari tecnici…
«Quello che mi dispiace è che la gente che segue le partite non sa quello che succede durante la settimana, né ciò che prova chi siede in panchina. I tifosi possono dire che un giocatore è bravo, ma non possono sapere se sia allenato o se stia bene fisicamente perché quello possono saperlo solo l’allenatore e i dirigenti. Quando ero in panchina, ogni tanto mi usciva anche qualche frase infelice che i miei giocatori mi ricordavano nel primo allenamento successivo: “Rossi, si ricorda che cosa ha detto in panchina?”. Io non me lo ricordavo perché erano frasi dettate dall’adrenalina del momento e di conseguenza dicevo: “Mi dispiace, scusatemi, ma in quel momento mi importava vincere”. Ricordo che Flavio Bertola, ogni volta che segnava un gol, veniva in panchina a dirmi “Allora, hai visto come si gioca a calcio?”: era un modo di vendicarsi dei miei allenamenti massacranti.»
Ma poiché l’appetito vien mangiando, di vittoria in vittoria i tuoi ragazzi si prestavano di buon grado alla “torchiatura”…
«I ragazzi si allenavano volentieri anche quando si perdeva, perché comunque la sconfitta insegna sempre. Tuttavia, avendo vissuto due anni di imbattibilità, non era pesante allenarsi. La maggior parte dei giocatori era gente che lavorava: venivano al campo alle sette, alle otto e talvolta anche alle nove, con grande sacrificio. Penso a Rapalino, che spesso tenevo sul campo anche un’ora in più… Senza contare il freddo d’inverno, la pioggia e talvolta anche la neve, con i ragazzi costretti a farsi in pratica docce fredde perché non c’era riscaldamento negli spogliatoi. Però tutti lo facevano volentieri, nessuno si ribellava mai.»
Insomma, cose quasi eroiche che i giovani d’oggi faticherebbero a comprendere. Ma il bello era proprio questo…
«Io non ho mai allenato ragazzi, né potrei farlo per via della mia irruenza. Ma quando, durante la settimana, mi capita di andare al campo di Zinola in occasione delle partite dei ragazzini mi viene da pensare che la rovina di certi giovani siano i genitori, che insultano gli avversari e quasi invitano i loro figli a picchiare anziché essere contenti che vengano allenati, stiano in gruppo e, se possibile, giochino: a quell’età il calcio dovrebbe essere divertimento e, soprattutto, formazione e occasione di socializzazione. A me dispiace molto sentire certe volgarità sugli spalti: nel calcio ci possono stare la grinta e la determinazione, ma senza fare del male all’avversario.»
E abbiamo toccato un tasto dolente. Quando un ragazzo si avvicina alla pratica disciplina sportiva, tanto più se popolare come il calcio, l’atteggiamento della famiglia può essere sia di stimolo che di ostacolo, in quanto, non di rado, i genitori sono propensi a scorgere nella scelta dei propri figli la possibilità di una carriera e di un conseguente tornaconto economico a scapito dell’aspetto ludico-educativo…
«Un genitore dovrebbe essere talmente critico verso il proprio figlio da capire quando è in grado di andare avanti formandosi come calciatore e se può avere un avvenire nel calcio, ma senza mai tralasciare due aspetti fondamentali come lo studio e il lavoro. Perché se, disgraziatamente, non trova un’adeguata formazione calcistica oppure la persona che lo porti in una squadra importante e lo faccia debuttare, questo ragazzo resterà sempre un giocatore medio destinato a ritrovarsi senza arte né parte. Quindi è opportuno che il genitore, in accordo con l’allenatore, verifichi se il figlio possa avere qualche possibilità e, in caso positivo, lo faccia crescere. Ma quello che più conta per me è l’intelligenza calcistica: vedo sul campo tanti ragazzini che non sanno neppure correre perché manca loro la base che dovrebbero ricevere nelle scuole. Quando vado in palestra dico sempre agli istruttori: “Perché nelle scuole non insegnate a posare i piedi, a camminare e a correre?” perché nel calcio il portamento e il saper correre sono importantissimi. Io ammiro certi dirigenti che fanno da allenatori ai ragazzini, però non danno loro le basi: come fanno a insegnare uno stop, una sovrapposizione, come si scala, come si sta in campo? Apprezzo la loro disponibilità, ma dovrebbero ammettere che questo mestiere non è il loro.»
Tornando invece a te, dopo cinque anni da favola la tua esperienza al Quiliano si conclude. Come mai?
«Perché a un certo punto era giusto che si cambiasse, anche se a distanza di tempo il dottor Moirano mi avrebbe confessato che forse la mia sostituzione era stata un errore. Come già ricordato in apertura, io all’epoca non avevo ancora il patentino: allenavo perché avevo vinto i campionati, dopodiché assumevo il ruolo di dirigente e al mio posto mettevo Luciano Brondo che invece era in possesso del patentino. Conclusa l’esperienza al Quiliano, per motivi di lavoro sono stato trasferito da Vado Ligure a Termoli: ero istruttore in Fiat, preparavo i tecnici elettronici e meccanici attraverso corsi. A Termoli ho poi cambiato diverse sedi e mi sono trovato a girare l’Italia in lungo e in largo, per cui ho dovuto forzatamente smettere di allenare, salvo una breve parentesi di ritorno allo Speranza.»
Per concludere, Luciano: che cosa rappresenta oggi il calcio per te?
«Insieme al tennis, che ho anche praticato a livello amatoriale, resta il mio sport preferito. E soprattutto mi ha aiutato a trovare molte conoscenze e molti amici. Ancora oggi in molti mi salutano e, anche se talvolta stento a riconoscerli, per me è un grande piacere: significa che ho lasciato un buon esempio. Così come sul lavoro: diversi miei ex colleghi sparsi per l’Italia tuttora mi chiamano per invitarmi a pranzo o a cena. Naturalmente non posso pretendere di essere sempre essere ricordato in maniera positiva perché la gestione di personale, nel lavoro come in una squadra di calcio, non è mai facile: in veste di funzionario Fiat, per dire, gestivo cinque aziende con tutto ciò che comportava. Tornando al periodo trascorso a Quiliano, ripeto, mi resta un ricordo meraviglioso: con Rapalino e Bertola mi capita di dialogare su Facebook, altri miei ex ragazzi li incontro in giro per Savona ed è sempre una gioia. E i vari Salinas, Giusto e Moirano – anche se quest’ultimo non lo vedo da molto tempo – me li porterò sempre nel cuore.»
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