La storia del diario scolastico di Cà de Ferrè e della maestrina che nell’inverno 1944-45 raccolse 31 ragazzi nella sua classe fra i boschi, ha una svolta straordinaria. L’insegnante ha un nome conosciuto a Savona: Maria Adelaide Carozzi, un volto e impensati risvolti epici e romantici.
MARIO MUDA
Se questa storia fosse stata scritta in un libro, in questa pagina ci sarebbe un fiore. Stelo disseccato, con qualche traccia di colore attorno alla corolla, una filigrana di ricordi, a segnare l’incipit di una storia cara e di tracce che ormai sono più impalpabili dei petali di un fiore.
Anche se la nostra storia è digitale, ha egualmente una sua sfumatura di dolcezza e riverberi di colori.
Come tutte le storie ha un precedente.
IL REGISTRO DI CLASSE SALVATO DAL MACERO
Tempo addietro, in un plesso scolastico di Savona erano stati mandati al macero residuati di anni e attività didattiche: temi, diari, quaderni e anche alcuni registri di classe.
Questi registri di classe sono la cartella clinica di un gruppo: qui, con metodo, vengono annotati disciplinatamente dagli insegnanti il metabolismo delle lezioni, l’alimentazione culturale degli studenti, il battito cardiaco spirituale della scolaresca, l’emocromo di presenze degli alunni.
Milioni di registri di classe sono spariti negli anni, cancellati dal loro ingombro, dalla loro ripetitività, dall’apparente inutilità, anche se depositari del racconto di una vita, della vita di una classe, che è corale, con accenni all’individualità o al singolo, soltanto in caso di assenze o mancanze disciplinari.
Anche il registro di cui stiamo parlando sarebbe sparito nel limbo dei registri perduti se un maestro con un gesto istintivo di chi sa bene cosa si stava per perdere, scorgendolo fra la carte che partivano per il macero, non lo avesse salvato e con esso le storie che conteneva.
IL MAESTRO CHE SALVA I RICORDI
Ecco questa è la storia di due maestri, in un abbraccio temporale e lunghissimo. In un arco di tempo che attraversa un’epoca, due insegnanti vecchio stampo, in questo gesto di sottrarre al rogo un testo, si danno la mano. A me fa piacere che quel gesto lo abbia compiuto Mimmo Turchi che pur con un palmares di studi di tutto rispetto, ama chiamarsi e svolgere il proprio ruolo di maestro e mi fa ancora più piacere, sapendo la sua identità morale e politica, che lui, con questa scelta, abbia salvato la figura di una persona che esce dalla Storia, quella importante e corale, per entrare in questa storia, più dimessa, meno eclatante, che le restituisce tre elementi significativi: la vita, la gioventù, l’eleganza di un gesto spirituale che sarebbe rimasto circoscritto alla consapevolezza dei parenti e invece diviene pubblico e codificato, quindi eterno.
LA STORIA INIZIA A CA’ DE FERRÈ
Il registro raccontava fondamentalmente due cose: l’attività di una maestra al suo primo incarico, e la storia di una località, Ca’ de Ferrè, della sua comunità di studenti e di sottofondo la sfumatura dei gesti di sostegno degli abitanti. Oggi tutte ombre, come gli edifici della borgata che ingordigia e incuria hanno lasciato distruggere e scomparire.
Nelle settimane scorse, Elena Gianasso collaboratrice di questo giornale, alla quale Mimmo Turchi, anni addietro, aveva affidato il delicato compito di riassumere e tratteggiare gli elementi principali del registro, aveva suggerito a Quilianonline di recuperare quei dati che raccontano la vita di alcuni mesi di scuola, in una località lontana, dove si erano radunati i ragazzi senza scuola per la guerra provenienti da varie frazioni o paesi confinanti.
Ca’ de Ferré era un borgo con la chiesa, un locale per la scuola, qualche casa e, attorno campi e boschi lavorati, sentieri e strade interpoderali che lo collegavano a Montenotte, Marmorassi, Santuario, Cadibona.
I ragazzi erano figli di contadini, di qualche sfollato, ma erano soprattutto giovani che il regime in qualche modo cercava di raggruppare perché, frequentando la scuola, non si disperdessero fra quelle schiere di altri giovani che lentamente stavano popolando le montagne, i boschi e le zone abbandonate, per ostacolare con le loro convinzioni, poche armi e molta determinazione, un cupo regime che, sgretolandosi, tirava criminali colpi di coda.
QUELLA CLASSE AL GELO NELL’INVERNO 44-45
Così avevamo raccontato di quel diario in cui una giovane maestra, al suo primo incarico perché Ca’ de Ferrè era un posto sperduto, malsano, povero, avesse descritto come fosse riuscita a organizzare una stanza con sedie e banchi di fortuna e dato avvio al suo rapporto con gli alunni, ben 31, in una pluriclasse che andava dalle prime fino all’Avviamento.
L’inverno freddo, la neve, l’isolamento, le gote arrossate dei bambini che giocavano sul sagrato della chiesa e che lei non sgridava per i ritardi. E poi i primi fiori arditi, offerti gioiosamente da una bambina che li aveva raccolti e portati con un gesto gioioso e puro d’affetto, più che di deferenza.
Nelle sue note, i riferimenti al freddo, alle malattie dei ragazzi, al loro rapporto con la scuola.
Iniziato nel novembre del 1944 il registro si interrompe bruscamente, senza nessuna spiegazione, nei primi giorni dell’aprile successivo, un mese che sappiamo tormentato e fondamentale per la storia del nostro Paese.
IL MISTERO SULLA FINE DELLA MAESTRINA
Che fine aveva fatto la maestrina? Chi era? Qual era il suo volto? Perché il diario finiva in quel modo così brusco? Perché, anche se interrotto senza spiegazioni, era comunque finito nel grande contenitore della scuola ufficiale che lo aveva conservato per quasi settant’anni nei propri archivi?
Se questa fosse una storia scritta sulla carta, probabilmente sarebbe finita lontana, forse sarebbe andata persa, ma il digitale ha rivoli impensati e una mattina nella posta del giornale sono arrivate le scansioni di tre fogli: un diploma e due stati di servizio di una maestrina, anzi, di una signora Maestra, che testimoniavano una grande e meravigliosa storia, quella della nostra signorina che aveva insegnato a Ca’ de Ferrè.
UNA MAESTRA IN GIRO PER TUTTA LA PROVINCIA
Lì, alle spalle di Savona aveva iniziato e da lì per una vita, aveva continuato nel suo delicato e insostituibile ruolo di maestra fino al 1980 percorrendo quasi tutta la provincia di Savona Rocchetta, Gameragna, Case Lidora, Stella (San Martino, San Giovanni), Ellera, Luceto, Marmorassi, per arrivare poi e per lungo tempo, alle De Amicis di Savona.
Bene, eravamo venuti a conoscenza del suo cursus honorum (stato di servizio straordinario per giudizi), ma rimanevano l’incognita del suo volto e della sua personalità.
SVELATO UN MISTERO NE SPUNTA UN ALTRO
Così in un pomeriggio di afa e cemento, ben lontano dai refoli di gelo e dal candore della neve raccontati di Carozzi Maria Nevina di fu Ernesto e di Frasolo Domenica nata a Bistagno nel 1924 (così come citava il registro di classe) il magic box della nostra maestra viene aperto dalle figlie e da una nipote e reso pubblico. L’incontro con persone che parlino di congiunti scomparsi, ha sempre attimi di imbarazzo e qualche incertezza narrativa. Contiene aggiustamenti che non si rifanno mai alla realtà dei fatti, ma sono compromessi fra chi racconta e cerca di saldare il proprio debito morale e di riconoscenza e il vero oggetto del racconto. Invece parlare con Lucia Ballerini logopedista, Donata Ballerini anatomopatologa e con sua figlia Elisa Gervasio, le due figlie e la nipote di Maria Nevina Carozzi, è stata una ventata di sobria felicità, di sicurezza e complicità affettiva, di grande gioia nel raccontare le declinazioni di una personalità che come traspariva dal diario, poi sono rimaste immutate nel tempo. Una persona straordinaria che non è rimasta chiusa nel racconto domestico dei parenti, ma grazie a quel gesto istintivo del maestro Turchi è diventata magica polvere di stelle che ci coinvolge e ci obbliga al sorriso e alla intimità. Il primo sorriso è uno squarcio, una cosa esteticamente straordinaria eppure semplice, quasi ottocentesca. Potrebbe essere una storia di Fogazzaro e il libro dovrebbe veramente racchiudere un fiore fra le pagine.
COME MARIA ADELAIDE DIVENTA MARIA NEVINA
In realtà Maria Carozzi si chiamava Maria Adelaide. Maria Nevina esiste solo in quel registro salvato dal fuoco. Sorridono le figlie nello svelare il segreto e noi con loro non possiamo che ammiccare al perché della storia di Maria Nevina.
La maestra Carozzi, e qui occorre una parentesi esplicativa, era la sorella di Carlo Carozzi che fu preside importante per Savona, figura autorevole nel mondo didattico Savonese per anni ai vertici dei principali istituti della città. Uomo d’altri tempi, sicuramente di uno stampo autorevole e professionalmente ineccepibile. Molto più anziano della sorella, figlia in seconde nozze del padre, Carlo Carozzi ebbe nei confronti della sorella, quando entrambi rimasero orfani, le premure di un fratello e l’accortezza di un genitore. Non deve aver visto di buon occhio il professor Carozzi che la sorella al primo incarico dovesse, ogni due settimane, prendere il treno da Savona, scendere a Santuario e attraverso sentieri impervi, con il bagaglio, raggiungere nei boschi, Ca’ de Ferrè, dove alloggiava in una sistemazione di fortuna, al centro della borgata.
L’anno prima la neodiplomata Maria Adelaide aveva tenuto il doposcuola di Loano per i ragazzi figli di immigrati italiani in Libia. Un’associazione “ Ragazzi d’Africa” offriva un tetto e assistenza ai ragazzi figli di italiani che negli Trenta erano andati a lavorare in Africa. Con il conflitto, il rientro sul suolo patrio e la speranza, vana, che qui la guerra non dovesse arrivare. Poi l’anno successivo, il primo incarico, a Savona, Ca’ de Ferrè.
UNA LEGGENDA NASCE DAL FREDDO DELL’INVERNO
Quello fra il 1944 e il ’45 dicono fosse un inverno molto freddo, forse uno dei più duri di quegli anni e da record se paragonato a quelli successivi, Maria Adelaide Carozzi, partiva da Savona in treno, poi da Santuario, saliva lungo i sentieri e arrivava a scuola. Con la pioggia, con il freddo, con ogni tempo.
Era giunta da poco, non aveva conoscenze e nessuno le dava molta confidenza. Arrivava dalla città, era l’espressione di un potere inviso, era una donna giovane, bella, raffinata. La tenevano a distanza. Con rispetto, ma senza confidenze.
Nevicava, mai vista tanta neve così, la stazione di Santuario agibile perché i ferrovieri, anche allora, avevano un piglio agonistico, ma la strada a piedi era un inferno. Di freddo e neve.
Maria Adelaide Carozzi affronta la salita e Ca’ de Ferrè è lontana. Nel procedere, a un certo punto, la maestra precipita in una specie di fosso, forse rovi mascherati dalla neve, sicuramente la neve le cade addosso dagli alberi in quantità impressionante e la sommerge. È imprigionata, respira a fatica, il freddo la stordisce, la paura la paralizza. Nessuno con quel tempo era in giro e dalle case, sicuramente, nessuno si sarebbe mosso per vedere se la maestra avesse deciso di raggiungere i suoi ragazzi nonostante quelle condizioni meteorologiche.
E Maria Adelaide si battezza, anzi la battezzano, per chi vuole vedere le analogie e capire perché ci fu una gioventù forte, bellissima e vincente, ne ha una metafora qui.
QUEI LUPI SBUCATI DAL NULLA
Maria Adelaide Carozzi è sotto una valanga di neve e non può muoversi. Ha paura, soffre. Urla, senza speranza, chiedendo aiuto con tutte le forze che ha e il bosco, come in un racconto antico, in una favola d’altri tempi, quasi una saga, si anima, diviene forza, si trasforma in vita. Spuntano dal nulla figure che la spiavano nel suo incedere, che la controllavano nella risalita, probabilmente la stavano studiando. Erano i partigiani che per lottare avevano scelto l’altura, la solitudine, la privazione. La salvano. Sono giovani, randagi, essenziali. Generosi. Scavano la neve con le mani, prendono le sue fra le loro, la tirano fuori. Maria Adelaide Carozzi torna a respirare, certamente felice della vita, più sicuramente stupita di quegli angeli sbucati dal nulla.
Quei ragazzi che si battezzavano con nomi strani per non tradirsi se catturati, la chiamarono Nevina.
Nevina, la maestra di Ca’ de Ferrè e lei, sul quel registro si firmò così: Maria Nevina Carozzi. Non era solo riconoscenza, quel giorno, nella neve, la maestra era davvero sfuggita alla morte e giustamente aveva accettato quel nome nuovo e mai, come quello, azzeccato. Forse era anche il segno della scoperta di una identità.
MESSAGGERA SILENZIOSA E AFFIDABILE
Le cose cambiarono. In casa non sanno dire molto, i nipoti hanno raccolto davanti agli album delle foto più confidenze dei figli, e quindi spuntano i racconti di come nascoste dentro la gavetta lei portasse da Savona, su per i boschi, lettere per quei lupi che l’avevano salvata, per quelle facce barbute spuntate sotto la neve, che ogni tanto passavano a lasciarle due righe per casa o una richiesta di contatti. Maria Nevina, scriveva il suo diario di classe in modo sobrio e depurato e ogni 15 giorni scendeva a valle, a salutare il fratello Carlo, recapitare qualche lettera, dare una notizia, ripetere un messaggio affidato alla sua discrezione e alla sua memoria e ripartiva.
LA DELAZIONE DI UN VENDITORE DI BOTTONI
Dicono e non stupisce, che un venditore di bottoni e fili, che frequentava le borgate distribuendo consigli e novità, e al contempo raccogliendo indicazioni da passare poi alle orecchie sempre attente del sistema, fosse l’autore di una delazione nei confronti della maestrina.
Maria Nevina abitava da sola, in una casa dura da riscaldare e proibitiva da vivere. Nelle settimane che correvano verso la primavera il suo impegno didattico, l’amore per i ragazzi, ma forse (e questo non è dato sapere) il rischioso ruolo di postina fra i boschi e la città, le aprirono molte case. Scambi di poco sale che lei portava in collina, cene di polenta condivise, chiacchiere e confidenze, dove le persone contavano più del cibo. Ma lei restava sola e facile bersaglio.
Bisognava dare una lezione ai fiancheggiatori e creare il vuoto attorno a chi aiutava i ribelli. Carlo Carozzi venne informato che stavano per uccidere la sorella, con uno di quei sistemi abituali del regime per zittire i dissidenti: una scarica di proiettili e una fuga anonima e poi, come spesso succedeva, attribuire la colpa ai partigiani.
Erano solo voci, ma fondate e chi le aveva passate era persona fidata.
Carlo Carozzi le impose di ritornare a Savona e di non uscire di casa. Solo per po’.
Nevina, lasciò il borgo e poi passata la burrasca, il fratello la fece ritornare fra i monti, perché il lavoro bisognava rispettarlo. Non la mandò sola: fecero da scorta Carla, sorella di Maria Adelaide, allora dodicenne e la madre perché era molto più difficile mettere a tacere tre donne, seppure in una casa vuota, che non una giovane di vent’anni appena, sola.
A PRIMAVERA, ALL’IMPROVVISO, IL DIARIO TACE
Arrivò la primavera, fra piccole geometrie quotidiane che il diario appena accenna e poi tutto prese una piega improvvisa e brusca: la Liberazione, gli alunni che da sfollati potevano tornare a casa, con gli altri ragazzi cresciuti in fretta in quell’inverno e che dovevano affrontare i campi perché non tutti gli uomini erano tornati e occorrevano nuove braccia per il lavoro.
Da quel giorno di aprile, più nessun aggiornamento e di quella pluriclasse e di quei bambini che portavano i fiori non rimase nulla.
Nevina e la sua storia si erano sciolte come la neve di quell’inverno.
Passarono gli anni, ma il legame con Cà de Ferrè, con la sua gente non vennero mai meno. Maria Adelaide Carozzi tornava ogni tanto a salutare le persone con cui aveva vissuto quella parentesi straordinaria umana e ambientale, i rischi della vita legati a un viaggiatore, la sicurezza nelle mani di clandestini.
Per un giorno ancora Nevina. Una grande bolla in cui la famiglia ogni tanto entrava, vuoi nella casa di Savona con i racconti ai nipoti, vuoi in collina quando andava a rinsaldare antiche amicizie e le figlie al fianco.
CA’ DE FERRÈ RIMASTA NEL CUORE
E di questo amore immutato per quelle case antiche e la sua gente oggi scomparse, la testimone più significativa è la figlia Lucia che proprio nella chiesa Cà de Ferrè ha deciso di sposarsi. Però alle figlie è rimasta la nostalgia di un racconto della madre che non hanno mai letto, ma salvato dal gesto impulsivo di un maestro che aveva capito come, quell’amputazione, sarebbe stata comunque ingiusta e dolorosa. “Sì- hanno detto – ci piacerebbe molto rivedere la calligrafia della mamma e leggere per intero e nel dettaglio le cose che aveva scritto”.
Comprensibile, la mamma a vent’anni. Giovane sul quel registro, giovane per sempre.
Ma a Nevina cosa era rimasto di quei giorni? Forse qualche ricordo, sicuramente intenso, ma troppo intimo e personale da non poterlo raccontare neppure ai nipoti. Aveva condiviso con loro altri battiti del cuore.
E non aveva più ripensato nemmeno a quel registro di classe.
Chissà, se questo fosse un libro forse potrebbe esserci anche un fiore rimasto dentro il registro.
Ma è tutto ciò è impossibile, perché questa è una storia digitale.
https://www.quilianonline.it/come-eravamo/il-diario-della-maestrina/
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