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SALINAS, LA MAGIA DEL QUILIANO

Essere del Quiliano è come una magia. Ti prende e non puoi più rinunciare. Ci si lega a questi colori e a questa gente. Michele Salinas da sempre nella storia di questa società spiega come e perché accade. E anche molto di più. BORIS CARTA Michele Salinas, team manager della prima squadra e supervisore dell’area […]

Essere del Quiliano è come una magia. Ti prende e non puoi più rinunciare. Ci si lega a questi colori e a questa gente. Michele Salinas da sempre nella storia di questa società spiega come e perché accade. E anche molto di più.

BORIS CARTA

Michele Salinas, team manager della prima squadra e supervisore dell’area sportiva del settore giovanile dell’U.S.D. Quiliano&Valleggia, è da considerare a pieno titolo la memoria storica del calcio quilianese degli ultimi quarant’anni.

Presenza costante nel panorama del calcio dilettantistico ligure, già presidente e membro dello staff dirigenziale della prima squadra e del settore giovanile del Quiliano Calcio e poi dirigente del Valleggia Calcio, è stato uno “della prima ora” tra coloro che, nell’autunno del 1978, hanno contribuito alla rifondazione dello storico sodalizio biancorosso. Del quale, per la verità, fin da piccolo aveva cominciato a respirare l’aria grazie a persone molto vicine a lui…

IL QUILIANO? UNA STORIA DI FAMIGLIA

«Esatto. Andrea Prefumo, mio nonno materno, è stato uno dei primi dirigenti del Quiliano che, fondato nel 1946, ha preso parte al suo primo campionato nella stagione 1947-48. In un secondo tempo è arrivato anche mio zio Bruno Prefumo: entrato come giocatore (insieme al fratello Rinaldo, morto a soli 24 anni a seguito di un tragico incidente sul lavoro), ha ricoperto successivamente il ruolo di dirigente fino a raggiungere, dopo un certo tipo di trafila, la presidenza, durante la quale vinse diversi campionati. Senza dimenticare mio zio paterno Paolo Salinas, presidente negli anni ‘50.»

                                                                                                    

Con questi presupposti direi che il tuo amore per il calcio sia sbocciato abbastanza presto…

 

«Le prime volte in cui venivo al campo – avrò avuto sette-otto anni – ero particolarmente attratto dal portiere del Vado Rosso, di cui mi aveva impressionato la divisa completamente nera. Ricordo che in tre-quattro ragazzini ci posizionavamo dietro le porte per ammirare questo ragazzone che volava da un palo all’altro. È nato tutto da lì, vedendo la gente sulle tribune che gridava e incitava i giocatori: era sicuramente un bell’ambiente ed era naturale che un ragazzino venisse colpito da tutto ciò. Fin da piccolino avevo cominciato a giocare nel Vado, iniziando nei “Pulcini” – allora la categoria “primi calci” non esisteva ancora – e proseguendo con gli “Esordienti”. Giocavo come portiere e, a detta degli tecnici ero anche bravo; tant’è vero che quando, dopo appena due anni, avevo deciso di smettere erano venuti a casa mia a parlare con mio padre perché volevano a tutti i costi che ci ripensassi. Ma io pensavo ad altre cose, giocare a calcio non mi interessava più di tanto. Di discipline sportive ne ho praticate parecchie: dal karate al judo, al ju-jitsu. Diciamo che mi piaceva… saltare da un fiore all’altro. Verso i 14-15 anni i miei interessi sono cambiati: motori e ragazze. E il calcio aveva completamente smesso di interessarmi.»

DA MASSAGGIATORE  A PRESIDENTE

Almeno fino al 1979…

 

«Era stato Mauro Giusto, mio grande amico da sempre, a coinvolgermi nella rifondazione del Quiliano e così, per amicizia sua, mi sono ritrovato in quel gruppo. Per due anni ho collaborato con la società a livello, per così dire, di “peon” perché l’allora presidente sosteneva che i “peones”, coloro i quali eseguivano materialmente ogni tipo di lavoro, fossero importanti quanto i dirigenti. Sono partito così e piano piano, visto l’attaccamento al mio paese, alla società e ai ragazzi stessi, ho fatto tutta la scalata. Ho cominciato facendo il massaggiatore seguendo le orme di mio zio Bruno, che dopo aver lasciato il calcio si era dedicato al ciclismo. Una volta smesso di correre, aveva frequentato un corso per massaggiatori entrando poi in servizio in una squadra ciclistica professionistica. Poiché per la società di quei tempi andare in giro a richiedere un massaggiatore era costoso ho detto: “Va bene, lo faccio io gratis”. Dopo aver fatto un corso accelerato con mio zio ed essermi in parte documentato anche per conto mio, sono entrato nel Quiliano e ho svolto questo incarico per una decina d’anni. Quindi, poiché da cosa nasce cosa, ho assunto per due anni la responsabilità della prima squadra e ricoperto per un altro biennio il ruolo di direttore sportivo, dopodiché, nel 1994, all’interno del consiglio è stato deciso all’unanimità che fosse giunta l’ora di eleggermi presidente.»

                                                                                                    

Con quale spirito ti sei accostato alla massima carica?

 

«Direi superpositivo. Alla società avevo dichiarato che qualora si fosse data retta ai consigli che avrei potuto dare, nel giro di tre anni saremmo saliti in Promozione; sarà stato un caso, sarà stata bravura mia, dei dirigenti e dei giocatori, fatto sta che al terzo anno ce l’abbiamo fatta. Era il 1999, curiosamente in concomitanza con il ventennale della rifondazione del Quiliano. Dopo otto anni di presidenza, a causa di alcune incongruenze tra i dirigenti della prima squadra e quelli del settore giovanile, ho lasciato l’incarico, così come il direttore sportivo e altre due persone. Alcuni personaggi avevano ritenuto opportuno scindere le due cose e il meccanismo si era rotto; così, in quel momento, abbiamo pensato che fosse l’ora di passare la mano. Sono seguiti un paio di presidenti “traghettatori”, quindi è arrivato Nicola Perna, un altro della “vecchia guardia”, un presidente che a mio avviso ha fatto molto per questa società ma che dopo un po’ ha finito anch’egli per stancarsi. Purtroppo, dopo di lui sono intervenuti personaggi che pensavano di fare il bene del Quiliano e invece l’hanno distrutto; non li nomino e neppure li giudico perché l’hanno già fatto altri. Fortunatamente, grazie all’intervento di persone che effettivamente sanno che cosa voglia dire fare calcio a questi livelli e soprattutto che cosa significhi l’aspetto sociale, è stato possibile mettere nuovamente insieme qualcosa di positivo. Così, con sacrifici enormi, ci siamo risollevati e ora proviamo a dare una nuova svolta a questa società cercando di creare la credibilità e la professionalità (parola grossa in questa categoria). E devo dire che nel nostro piccolo ci stiamo riuscendo perché siamo un gruppo molto organizzato e affiatato, che sa quello che vuole. Il nostro obiettivo è quello di riportare il Quiliano dove merita di stare; non so se ci riusciremo, ma sicuramente ci stiamo provando.»

LA SQUADRA ERA L’ANIMA DEL PAESE

Quali sono i tuoi primi ricordi in campo legati al Quiliano?

 

«Metà agosto del 1979 per la preparazione, che normalmente iniziava il giorno dopo Ferragosto. Trovarmi in questo gruppo di giocatori e amici, tutti del paese, su questo campo che per tanti anni non era più stato calpestato da persone di Quiliano è stata una grande emozione. Eravamo tutti giovani, non c’era un dirigente cinquantenne: io che ero, tra virgolette, un dirigente avevo pochi anni in più dei ragazzi che giocavano. Era davvero un discorso legato all’amicizia, alla compagnia: una volta finito l’allenamento o la partita andavamo tutti al Club Sportivi Quilianesi (come all’epoca si chiamava anche la società). Alla sera uscivamo insieme, la compagnia era formata dai ragazzi che giocavano a calcio: una volta si andava al cinema, un’altra a mangiare il panino alla “Volpe”, un’altra ancora alla gita sociale. Eravamo sempre insieme, uniti dalla sviscerata passione per questo sport nonostante qualcuno non avesse mai dato un calcio a un pallone. Si assisteva a scene incredibili: tifosi attaccati alla griglia per sostenere quei ragazzi che sudavano in campo. Ti racconto questa: in occasione della trasferta a Balestrino, prima partita di quel primo campionato di Terza Categoria, come tifosi eravamo presenti io, l’allora mia fidanzata e uno dei dirigenti che aveva rifondato la società. L’amore è nato da lì, è una cosa che non si può spiegare. A quei tempi le trasferte potevano essere un problema dato che non tutti avevano la macchina, eppure si riusciva a organizzare tutto nel migliore dei modi: eravamo un gruppo affiatato di ragazzi che si divertivano giocando. E alla fine i risultati sono arrivati perché la grossa forza del Quiliano è stata da sempre lo spogliatoio, senza il quale non si va da nessuna parte. Anche adesso che i ragazzi di Quiliano sono tre o quattro mentre tutti gli altri vengono da fuori, non si sa per quale meccanismo ma si crea questo gruppo.»

“SE PASSI IL PONTE SEI DEL GATTO”

Qual è il segreto di tutto ciò?

 

«Questo è un paese strano, bisogna riconoscerlo. Noi a Quiliano abbiamo sempre detto: “I giocatori che vengono da fuori, quando passano il ponte sono del gatto”. Nel senso che una volta che arrivano e frequentano questo campo se ne innamorano. Gli ex giocatori, oggi cinquantenni, che hanno giocato nel Quiliano hanno lasciato il cuore qui e lo dichiarano apertamente. Ogni anno organizziamo una partita alla quale invitiamo le vecchie glorie del Quiliano e del Valleggia: dovresti vedere le presenze. Il segreto è proprio tutta questa passione per il calcio che riusciamo a trasmettere, siamo sempre vicini ai giocatori e siamo riconoscenti a loro perché portano in giro i nostri colori e il nostro nome. La nostra forza è questa: non siamo distaccati dai giocatori, dirigenti e giocatori sono una cosa unica. È stato da sempre così, tranne che in occasione di quegli episodi di qualche anno fa a cui ho accennato: allora si era pensato che per vincere i campionati fosse meglio prendere altrove giocatori di livello superiore sapendo che, alla lunga, il giocattolo si sarebbe rotto. Nonostante i tifosi venissero e vedessero la squadra giocare bene mancava quell’attaccamento che ci poteva essere quando in campo erano presenti anche dieci giocatori del paese. Di ragazzi quilianesi che giocano in altre realtà ce ne sono tantissimi, sta a noi essere bravi a convincerli a ritornare a Quiliano, a far capire loro che qui c’è qualcosa di diverso: la famosa aria che si respira quando si passa il ponte.»

La formazione del Quiliano 1998-99: l’entusiasmo e la partecipazione dei giocatori sono l’elemento fondamentale del successo del progetto biancorosso

                                                                                                 

E la storia si ripete…

 

«Il Quiliano è retrocesso, alcuni dirigenti non se la sono sentita di andare avanti e hanno smesso. Ne sono arrivati altri con i quali siamo tornati, nel nostro piccolo, all’apice. Poi siamo di nuovo scesi, nel 2017 abbiamo toccato il fondo prima della fusione con il Valleggia e adesso stiamo di nuovo risalendo. È tutta una sinusoide… però il Quiliano continua a esistere, c’è sempre qualcuno che ne ha a cuore le sorti e dice: “Non mollo! Faccio dei sacrifici, mi organizzo, cerco di trovare gente che abbia passione come me e voglia risollevare le sorti di questa società”. Se, come mi auguro, continueranno a esistere persone come me, Giorgio Landucci e tanti altri, il Quiliano non sparirà mai. Io, con la prima squadra prima e con il settore giovanile poi, ho girato praticamente tutti i campi da La Spezia a Ventimiglia; e ho amici dappertutto, ovunque vada. Ti faccio un altro esempio: Antonio Marotta. Ci sarà un motivo se uno come lui, che è stato un calciatore professionista ed è arrivato a giocare in Serie B, viene a fare il direttore sportivo in una squadra di Prima Categoria la cui età media è di 23 anni. Da persona intelligente che non si butta allo sbaraglio qual è, evidentemente ha visto aspetti positivi e ha compreso che si può creare qualcosa di importante. Ecco, anche lui “ha passato il ponte”.»

DUE SQUADRE, DUE PAESI, MA L’ANIMA É LA STESSA

Qual è stata la carica alla quale sei rimasto più legato e che hai svolto con maggior piacere?

 

«Direi quella di presidente, perché comporta parecchie responsabilità ma regala anche grandi soddisfazioni. Devo dire che adesso è decisamente più difficile fare il presidente in quanto anche a livelli come il nostro i tempi sono cambiati e le regole sono molto più ferree. Una volta c’era più margine, ci si poteva muovere più liberamente mentre oggi, alla minima cosa che succede, si scatenano social, giornali e avvocati. Però per me è stata una bella avventura.»

                                                                                                    

Oggi la nuova avventura si chiama U.S.D. Quiliano&Valleggia…

 

«Nonostante nessuna delle due società fosse in difficoltà, si è ritenuto che non avesse senso mantenere nello stesso comune due squadre che giocano sullo stesso campo: meglio unire le forze e creare una società unica cercando di fare le cose come si deve. E a mio avviso ci siamo riusciti.»

                                                                                                    

Superando anche taluni campanilismi…

 

«Per quanto mi riguarda, è sempre stato un campanilismo tra virgolette visto che, per diversi anni le due società si sono scambiate molti giocatori. Con l’allora presidente Francesco Landucci, zio di Giorgio, c’è sempre stato un grande rapporto umano, che prescindeva dall’aspetto sportivo: abbiamo sempre cercato di fare il bene in primis dei ragazzi, della società e della popolazione. In parecchi casi gli ho proposto di prendere alcuni nostri giocatori, soprattutto giovani, non ritenuti adatti alla Prima Categoria o alla Promozione affinché nel Valleggia, che militava in Seconda Categoria, potessero giocare. Credo di essere stato – e Francesco Landucci me l’ha sempre riconosciuto – l’unico presidente del Quiliano ad aver instaurato una collaborazione di questo tipo: quando potevo andavo sempre a vedere le partite del Valleggia e ho mantenuto un bellissimo rapporto sia con il presidente che con i ragazzi.»

                                                                                                    

E la nuova realtà pare essere nata sotto i migliori auspici…

 

«Già anni fa io e Francesco Landucci avevamo parlato della possibilità di fusione ma purtroppo, all’interno di entrambe le società, c’era sempre qualcuno che voleva accentuare il campanilismo e, di conseguenza, non si riusciva a realizzare questo progetto. Alla fine, bene o male, ce l’abbiamo fatta e ne siamo contenti. E comunque il Valleggia esiste ancora, mi risulta che si stia attrezzando per fare il campionato a 11 UISP. Insomma, non è sparita nessuna delle due società e questo è importante perché anche il Valleggia, seppur appartenente a una diversa realtà, ha la sua storia. E soprattutto ha sempre avuto gente che ha lavorato bene poiché, a differenza del Quiliano, non è mai fallito.»

                                                                                                    

Senza dimenticare che prima della rifondazione del Quiliano, a rappresentare un paese così profondamente legato al calcio era stato per qualche tempo il Cadibona…

 

«Sì, ma occorre dire che non era seguitissimo, non ha mai avuto un grande pubblico. A mio giudizio è sempre stata una società un po’ troppo chiusa, non ha mai cercato di instaurare contatti di un certo tipo con altre realtà, si limitava a coltivare gelosamente il proprio orticello. Probabilmente era anche la posizione geografica più defilata rispetto al capoluogo e alla frazione di Valleggia a far sentire gli abitanti esclusivamente cadibonesi, senza un “quid” quilianese.»

LA FORZA DEL QUILIANO? IL PAESE E I TIFOSI

Tornando invece a quell’autunno 1978, come fu salutata dalla popolazione la rinascita del Quiliano dopo quasi vent’anni di silenzio?

 

«Fu accolta in maniera straordinaria. In quegli anni il Club Sportivi Quilianesi era una scuola di vita: non dico tutto il paese, ma la maggior parte dei ragazzi che uscivano la sera, il sabato pomeriggio e la domenica si ritrovavano lì. Quando finivano le partite e tutti, compresi i tifosi, andavano al Club, spesso molti non riuscivano a entrare tanta era la gente che si accalcava. Una volta lì, il gestore preparava focacce e torte e i giovani, compresi quelli che venivano da fuori, si fermavano lì un’ora e mezza o due. Senza contare i ragazzi di fuori che si sono fatti la fidanzata a Quiliano. C’era uno spirito di aggregazione esagerato che faceva nascere compagnie di generazioni diverse: arrivavano ragazzi di 15-20 e si univano al capannello dei trentenni entrando nei loro discorsi e consumando insieme a loro. Lo stesso quando si andava al cinema: c’erano persone di 20 anni, di 30 e di 40 tutte insieme. Non era un discorso a settore, eravamo tutti del Club Sportivi Quilianesi: ci trovavamo alle otto di sera e poi, chi andava a Cairo a ballare alla Perla, chi a mangiarsi il panino alla “Volpe”, chi da qualche altra parte ancora… però l’appuntamento era sempre lì. Soprattutto d’estate, poi, passavamo ore e ore seduti sotto gli alberi a parlare di qualsiasi cosa; e c’era da spanciarsi dal ridere perché certi personaggi – uno su tutti il dottor Fulvio Moirano, altro presidente storico del Quiliano – avevano una dialettica incredibile. Tutte cose che chi non le ha vissute non può comprendere.»

                                                                                                    

I tifosi, dunque, una grande famiglia. Ma anche la squadra ha sempre avuto questa caratteristica…

 

«Una grandissima famiglia. In tanti anni di spogliatoio del Quiliano credo di aver assistito non più di due volte a screzi che abbiano visto coinvolti allenatore e giocatori; discussioni normali a fine partita sì, ma senza insulti o parole pesanti. Anche perché non ce n’era motivo, nessuno dava l’input per poter essere aggressivo: regnava un’atmosfera di amicizia e aggregazione, era un qualcosa che avveniva automaticamente. Anche i ragazzi che venivano da fuori, mai stati nella realtà di Quiliano, dopo una settimana massimo due facevano già parte del gruppo, non c’era nessuno che li guardasse in cagnesco. E una volta entrati a far parte di quel meccanismo si comportavano come i veterani della squadra: i Rapalino, i Bertola, i Bellisio… tutti ragazzi cresciuti nel Quiliano che con quella maglia hanno disputato l’intera carriera. Per dire, Chicco Ferraro, l’attuale allenatore della prima squadra dell’U.S.D. Quiliano&Valleggia, è arrivato qui dal Vado quando aveva 16 anni e da allora non si è più mosso: per dieci anni è stato capitano del Quiliano e una volta smesso di giocare, la sua massima aspirazione è sempre stata quella di fare l’allenatore nel nostro paese. Dopo alcune parentesi in altre società, tra le quali l’Albisola, si è battuto tanto che è riuscito a tornare a Quiliano. Anche i ragazzi percepiscono questo suo attaccamento ai nostri colori perché lui va oltre il ruolo di allenatore. Insomma, credo proprio che se non farà qualcosa di strano potrà diventare per noi come Alex Ferguson per il Manchester United o Guy Roux per l’Auxerre.»

IL CALCIO? LO SPORT PIÙ BELLO

Per concludere, Salinas: dopo tutte le vicende alle quali hai assistito, e sono veramente tante, che cos’è ancora il calcio per te?

 

«Per me che sono sempre stato uno sportivo, non dico che sia uno stile di vita ma sicuramente è uno sport che ha qualcosa in più. Anche se negli ultimi anni il calcio è cambiato molto, l’emozione e la scarica di adrenalina che arrivano da un gol non le può dare nessun altro sport. Certamente esistono altre discipline molto belle, aggreganti e spettacolari; ma secondo me il calcio, malgrado tutto ciò che si sente in giro, resta sempre lo sport più bello del mondo. Le uniche cose che dovrebbero cambiare sarebbero gli stipendi dei giocatori: a fare il prezzo di un giocatore sono logicamente i risultati, l’immagine, gli sponsor e i soldi che girano intorno al giocatore, ma tutto ciò è un insulto alla gente che lavora, soffre e tira la cinghia tutti i giorni ottenendo in cambio ben poco. Purtroppo il calcio è uno sport che coinvolge un mucchio di gente e in cui girano tantissimi soldi al di fuori dei campi da gioco. E un ragazzo di 18 anni che si ritrova, tra virgolette, suo malgrado con un sacco di soldi rischia di bruciarsi in due anni se qualcuno non è in grado di gestirglieli. Ci sta che i calciatori abbiano una carriera breve, che si possano infortunare da un momento all’altro e a vent’anni non siano più in grado di giocare; ma che alcuni arrivino a guadagnare certe cifre è francamente inammissibile. A mio giudizio sono altri i fattori che caratterizzano una squadra di calcio, indipendentemente dai soldi: lo spogliatoio, l’attaccamento ai colori, il “coccolare” i giocatori. Noi, per tre volte alla settimana, a fine allenamento regaliamo la frutta ai nostri ragazzi e loro apprezzano questo nostro gesto, come noi apprezziamo quello che fanno loro. In questi casi non ci sono miliardi che tengano.»

 

 

 

 

Boris Carta

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