Non è la stagione, anzi, è passata da un po’, ma oggi parliamo di lucciole. Il motivo principale è che ne ha scritto Stefano Rolli, il disegnatore de Il Secolo XIX che ogni giorno ci regala una splendida vignetta, in genere di politica e costume, sulla prima pagina del giornale. Per sua passione, invece, scrive di natura, boschi, prati e storie di emozione e sentimento. Lui così cinico con i politici si illanguidisce di fronte alla storia di un albero o a alla fiabesca presenza di milione di lucciole. Questo racconto, che ci ha gentilmente donato, ci invita anche a pensare alla prossima estate e a costruire un rapporto diverso con la natura, i prati e l’ambiente. Perché le lucciole sopravvivano e restino un patrimonio di tutti. Un piccolo sogno, milioni di piccoli sogni, con le ali.
STEFANO ROLLI
Una notte di luna di diversi lustri fa, quando avrò avuto ventiquattro venticinque anni – porcomondo – mi muovevo con incedere romantico accanto a un’antica fiamma sulla passeggiata di Zoagli, quel camminamento stretto tra la scogliera e il mare che illanguidirebbe anche un macellaio.
Sarà stato tra maggio e giugno e non c’era un cane, che bellezza, e io azzimato come un beccamorto (era il mio periodo dark) me la tiravo come il cugino sfigato di Lord Byron mentre ragionavamo di storie gotiche e gruppi tipo Dead Can Dance (sulla copertina di “Within the Realm of a Dying Sun” c’è una tomba del Père-Lachaise, tanto per dire gli allegroni).
Il mare sospirava appena, c’erano poche luci lungo il percorso, ma la luna aveva acceso gli abbaglianti e disegnava sulla superficie dell’acqua un cono splendente che correva all’orizzonte come il Bifröst, il ponte dell’arcobaleno che conduce al Valhalla. E proprio sul finire della passeggiata, fuori da quel grande cono splendente, a pochi metri dalla riva, galleggiava una lucina piccola, intermittente ed esitante, che si sollevava sulle lievi increspature come una lampara alla deriva. Era una lucciola.
La bestiola con le ali zuppe non poteva volare via e incollata ai flutti continuava a emettere la sua pallida intermittenza come un sos disperato e noi – va detto, non particolarmente equipaggiati di nozioni entomologiche – pensammo stesse annegando. Così mi lanciai in un gesto che, più che un francescano amore per il creato, tradiva il tentativo di impressionare la bella tenebrosa. Spogliatomi dei miei lugubri panni, nudo come un verme scavalcai la ringhiera e caracollai nell’acqua che non era tiepidissima.
Sollevato eroicamente l’insetto sulla punta dell’indice, reggendo alta quella specie di lanterna lillipuziana – come una versione rachitica del Colosso di Rodi – tornai fradicio e trionfante a riva. Io e la lucciola ci asciugammo lentamente sulle rocce e, anche se l’impresa non mi valse particolari fortune amatorie, da quel piccolo episodio nacque una innocente mitologia personale per cui ogni volta che incrocio una lucciola la prendo per un grato emissario inviato da quel coleottero semiaffogato nel mare di Zoagli.
Gli anni e i capelli sono volati via, non sono più dark ma un po’ grunge, e la fortuna mi ha portato a condividere con Claude, la mia sposa, un angolo di terra in un luogo abbastanza fuori mano, silenzioso e di notte buio, da permetterci occasionali incontri con animali differenti dai bipedi che siamo. E vi garantisco che nelle nostre valli ci sono animali che la maggioranza di voi non ha mai visto ed è un peccato (per voi, per loro non si sa).
Adesso è giugno e quando è ora di andare a letto e si stanno per chiudere le imposte spesso ci attardiamo un po’ perché da ogni angolo dell’orto sorgono decine e centinaia di minuscoli fuochi fatui che vagano a mezz’aria e giocano a nascondino tra gli ulivi e le lavande. Le lucciole, le ciaebelle come si direbbe meravigliosamente in genovese (chiare belle), sono ovunque e ci circondano come se curiosassero e quando qualcheduna si infila in casa vado a soccorrerla prima che uno dei nostri gatti veda nella sua bioluminescenza la pubblicità di un sushi psichedelico. È buffo, perché è estate e la notte è dolce, ma a me viene in mente il mio Natale bambino, quando mi incantavo per ore a immaginare mondi interi tra le lucine che addobbavano l’albero.
Che c’è di strano in una lucciola, si dirà, e allora ve lo spiego. È soltanto un’impressione, è sicuramente un’impressione, ma ho la netta sensazione che ci sia un particolare affollamento di questi insetti nel nostro orto. Non ne vedo oltre i suoi confini, ma senza dubbio è solo questione di miopia. Però ho pensato a volte che questo orticello malandato è uno dei pochi qui intorno dove non si versa una sola goccia di insetticida, un solo millilitro di antiparassitario, un solo spruzzo di diserbante e, da un po’, nemmeno un grammo di verderame. Non è che per caso le lucciole abbiano apprezzato? Allora ho un po’ smanettato su Internet e ho trovato questo: che sino a fine anni Ottanta le lucciole comparivano ovunque tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, come la mia naufraga di tanto tempo fa. Che stanno lentamente scomparendo per colpa dei pesticidi e della deforestazione. Che in Inghilterra non luccicano quasi più. E che questi insetti sono veri e propri indicatori della salubrità dell’ambiente, delle sentinelle, come il canarino che i minatori si portavano in miniera per individuare la presenza di grisou: se c’era gas il canarino moriva. Che l’impiego di veleni in agricoltura elimina la microfauna di cui si nutrono le loro larve e che l’inquinamento luminoso impedisce alle lucciole femmina e maschio di riconoscersi durante il corteggiamento e addio bunga bunga. Intendiamoci, certamente la mia è solo un’impressione. Sul serio: sono convinto che si tratti di una suggestione. Ma per non sapere né leggere né scrivere, continueremo a non usare porcherie. Forse avremo meno cavoli e meno patate, mangeremo meno pomodori e meno fave, ma da noi c’è marcio di ciaebelle.
L’articolo è uscito sull’edizione cartacea de Il Secolo XIX il 22 giugno 2019
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